domenica 27 ottobre 2013

Suspiria.

"Suspiria" (1977), pellicola simbolo del passaggio completo di Dario Argento all'horror movie.
Dopo il primo assaggio di genere con il supremo "Profondo Rosso" (ancora debitore nelle tinte thriller alla "trilogia degli animali"), il regista romano firma il suo capolavoro e vede aperte le porte della famainternazionale, con un incredibile e meritato successo negli Stati Uniti ed in Giappone. Un ruolo fondamentale e vincente spetta alla fotografia; l'uso smodato di luci ad arco e lenti anamorfiche dona un clima surreale alla pellicola, caratterizzata da una straniante distribuzione visiva del colore nelle riprese, inzuppate in una profondità di campo onirica.
La colonna sonora dei Goblin diventa ancora più trainante rispetto a "Profondo Rosso", con un alternarsi dei silenzi magistrale: il vero asso nella manica del film. Guardare "Suspiria" armati di buone cuffie può diventare un'esperienza traumatica ma obbligatoria.

vF

giovedì 24 ottobre 2013

Alice in Chains.

Gli Alice in Chains, personalmente, li ho sempre visti vicini alla scena hard/heavy, forse per i loro tour insieme a gruppi della scena metal, o per gli arrangiamenti, più sofisticati rispetto alla media del "Seattle sound".

Nei primi anni 90 la stampa musicale ed il mondo discografico infilò nel calderone grunge chiunque suonasse alternative rock (l'esempio dei Blind Melon e degli Spin Doctors è abbastanza palese), più per creare un movimento che per vicinanza stilistica, mettendo sotto contratto un altissimo numero di bands.

Anche tra i padri del genere spesso i punti di contatto non sono moltissimi, basti pensare alle enormi differenze tra Nirvana e Pearl Jam.
Gli AIC hanno percorso un tragitto tormentato, chiuso (reunion a parte) da un tristissimo epitaffio; la tragica fine di Layne Staley.


vF

Porcelain Raft a Roma.

Mauro Remiddi, aka Porcelain Raft, è un compositore, autore e musicista nato al Roma nel 1972. Attualmente vive a New York.
Nel 1997 ha scritto la colonna sonora del corto La Matta dei Fiori di Rolando Stefanelli, vincitore del David di Donatello come miglior cortometraggio. Nel 1999 si è esibito al teatro La Mama di di New York durante lo spettacolo di tip tap Vaudeville 2000, per cui ha composto anche le musiche. Prima di trasferirsi in Inghilterra ha avviato una collaborazione stabile con Ra Di Martino, componendo le musiche e apparendo in tre suoi video (Not 360, Night Walker, August 2008). Nel 2003, Mauro Remiddi e l'artista/musicista Onyee Lo, hanno formato il duo Three Blind Mice, trasformato nel 2005 in Sunny Day Sets Fire. Nel 2008 ha collaborato con Filthy Dukes, cantando sulla traccia Somewhere at Sea, per l'album di debutto Nonsense in The Dark. Il suo primo EP, Gone Blind, è uscito con Acephale nel 2010. L'album di debutto di Porcelain Raft, Strange Weekend, è uscito nel gennaio 2012 con Secret Canadian.

LANIFICIO e RADIO ROCK  presentano
Life on Tuesday
Martedi 5 Novembre 2013
PORCELAIN RAFT in concerto + YOUAREHERE
Biglietto € 6 + d.p
Apertura Botteghino h. 21.00 | Inizio Concerti 21.30
Prevendite www.vivaticket.it
LANIFICIO159 | Via di Pietralata159/A - Roma
info@lanificio.com | tel. 06.41780081


Fonte lanificio.com

- 2012 - 


Porcelain Raft, o della fuga dei cervelli. La più bieca prassi giornalistica imporrebbe di rispolverare i soliti abusati frasari da terza pagina a proposito di questo artista romano, al secolo Mauro Remiddi, traslocato prima a Londra (si ricorda la sua militanza nei deliziosi Sunny Day Sets Fire) e attualmente domiciliato in quel di Williamsburg (New York), nel cuore pulsante del futurismo alternative odierno, dove ha registrato il suo primo album (che giunge dopo una lunga cometa di Ep e singoli vari) per conto di un'etichetta di prima grandezza come la Secretly Canadian. Un curriculum da far impallidire molti, non c'è che dire.

Eppure sarebbe il caso di non farne esclusivamente una questione di nazionalismo strapaesano, anche perché un lavoro come "Strange Weekend" merita molto di più. Il nostro uomo dimostra infatti di aver assorbito con estro prontamente ricettivo le vibrazioni più calde di questa nostra contemporaneità musicale spesso così imprevedibile, ricomponendo le molte vie del suo work in progress in un sound gassoso e luminescente, capace di avvolgersi in morbide spirali di suono rarefatto e di insinuarsi così negli strati più fluttuanti del pensiero.

Si potrebbe partire da "The End Of Silence" (o da "The Way In") per orientarsi nella proposta di Porcelain Raft, individuandone gli elementi salienti: una grazia delicata di voci e melodie in dormiveglia, pulsazioni che forse guardano alla musica house o forse no e, su tutto, la caligine carezzevole di synth che ammorbidiscono i contorni in un tenue luminismo atmosferico, fatto di macchie di colore e corpuscoli sottili.

I pigmenti new age di "Is It Too Deep For You?", la brina scricchiolante di "Drifting In And Out", la luce rugiadosa e densa, quasi lattea, che si rovescia sulle geometrie di "Put Me To Sleep", potrebbero far venire in mente (era già accaduto con la Casa del Mirto) mostri ormai sacri della premiata bottega chillwave del rango di Washed Out, Neon Indian o Memory Tapes, al pari di M83 (per i quali Remiddi aprirà il concerto italiano), Mgmt (sentite "Unless You Speak From Your Heart", hit potenziale) o di certe invenzioni di Daniel Lopatin. Legami e similitudini senza alcun dubbio credibili, ma occorre aggiungere che il canzoniere spremuto da "Strange Weekend" brilla e convince per la sua compiutezza in sé, per la forza di un'ispirazione gagliarda e originale.




"Strange Weekend" si propone così come una sorta di manifesto paradossale: è questo infatti il dream-pop immaginato da corrieri cosmici in pantofole nella solitudine metropolitana dei loro monolocali in subaffitto. È questo il suono abulico e tenerissimo della nostra solitudine disperatamente autosufficiente. In punta di piedi, sussurrato con la voce bassa (per non disturbare gli altri inquilini) e con le persiane abbassate. Che sia giorno o notte poco importa. Le città non dormono mai.

 - 2013 -
Era l’ispirazione la vera forza dell’esordio di Mauro Remiddi (aka Porcelain Raft), per una
esuberante scrittura lirica, che adagiava nelle braccia accoglienti del dream-pop una melanconia in bilico tra melodramma e poesia noir. Il tutto, per un songwriter regalato al mondo della pop music, ma di quella pop music che parla alla gente dei suoi ardori e dei suoi dubbi, una voce familiare in un mondo che corre sempre più veloce e stritola con il suo ritmo urbano i sogni residui. Nel suo secondo progetto i synth fanno spazio a piano e archi, allargando lo spettro di colori e toni: “Permanent Signal” è infatti un album che conferma tutte le emozioni dell’esordio “Strange Weekend”, ma con sfumature oniriche e riverberi umani. Il tono più riflessivo e sognante di questo nuovo capitolo della ricerca sonora di Porcelain Raft  non è un atto remissivo, ma è il frutto di una consapevolezza e di una volontà di esprimersi attraverso un suono meno definito ma emotivamente più presente. 

Le vibrazioni psichedeliche di “Minor Pleasure” sono una piacevole novità, un nuovo viatico che l’artista percorre per raggiungere nuove soluzioni sonore: è quasi un incontro tra le evoluzioni lisergiche degli Spiritualized e l’evoluzione del glam nelle lande berlinesi quello che anima anche “Five Minutes From Now”. C’è del nuovo anche in “Cluster”, dove le chitarre avvolgono una materia grezza e informe, per poi trasformarla in un insieme di accordi sognanti e ipnotici, tutto diventa per un attimo più fisico. 
Emozioni più semplici sono ancora presenti e offrono conforto al suono più cupo e triste che caratterizza “Permanent Signal”: ariose melodie (“Open Letter”) e raffinati momenti introspettivi affidati al piano e a una solitaria tromba (“I Lost Connection”) allentano la tensione che “The Way Out” e  “It Ain't Over” mettono in gioco con distorsioni electro-rock. Archiviando due suggestivi momenti di relax che aprono e chiudono l’album (“Think Of The Ocean” e “Echo”) resta da segnalare un'incursione nel territorio dei Beach House e dei Radiohead, con la romantica e profonda “Night Birds”.


“Permanent Signal” non indugia nelle luminose melodie dell’esordio; il tono più dimesso ha infatti la stessa consistenza degli How To Dress Well e dei Deptford Goth, anche se Mauro Remiddi frequenta maggiormente il pop e la new wave anni 80, sfoggiando un candore che riesce a far luce sotto la coltre di polvere e indifferenza che aleggia in modo sinistro sulle sorti della musica moderna.


Fonte ondarock.it

martedì 22 ottobre 2013

10 Libri.

Il mio personale elenco dei dieci libri più importanti che conosca:

Borges Jorge Luis, 'Finzioni'; (1941)
Bronte Emily, 'Cime tempestose'; (1847)
Camus Albert, 'Lo straniero'; (1942)
Céline Louis-Ferdinand, 'Viaggio al termine della notte'(1932)
Cortázar Julio, 'Rayuela'(1963)
Dostoevskij Fedor, 'Delitto e castigo'(1866)
Joyce James, 'Ulisse'(1922)
Kafka Franz, 'Il castello'(1926)
Melville Herman, 'Moby Dick'(1851)
Tolstoj Leo, 'Anna Karenina'(1877)


Sono in ordine alfabetico per cognome autore, non per importanza. Includono solo gli ultimi due secoli di letteratura di tre continenti. Non ho volontariamente ripetuto uno stesso autore. La lista è stilata ad oggi, 21 ottobre 13, e ovviamente soffre delle lacune di tutto ciò che non ho potuto ancora leggere e/o conoscere e/o scoprire. Ho dovuto rinunciare a grandissimi libri. Alcune esclusioni sono ponderate, altre no. In quel caso ho semplicemente lasciato scegliere il cuore. Fra le scelte pensate, un titolo scansa quasi sempre -ed involontariamente- un altro simile, o paritetico, o paragonabile. L'idea era quella di sezionare il più possibile i generi e le peculiarità. Ciò non significa siano meno belli, importanti, interessanti, decisivi. Alcuni esempi: Ho preferito Borges a "pasto nudo" di Borroughs, poiché volevo una raccolta di racconti ed un libro rivoluzionario per stile, efficacia e bellezza... e ancora sono indecisa fra i due. Ho preferito Karenina a Madame Bovary, li ritengo affini. Allo stesso modo ho favorito Delitto e Castigo piuttosto che l'Idiota. Via dicendo. Kafka, fra i lavori di uno stesso autore, è stata la scelta più travagliata, stavo per mettere "america", più bello da leggere, poi "il processo", più sociale, alla fine ho scelto il Castello. Inserendo Kafka ho preferito (a malincuore!!) omettere Thomas Mann, con la montagna incantata, o i buddenbrooks, e rimpiango di non poter mettere il Tamburo di latta di Grass. Starebbero di diritto nella lista anche Il rosso e il nero di Stendhal e Il maestro e Margherita di Bulgakov, ma li ho letti troppo tempo fa e forse non fui pronta, al tempo, ad inquadrarli empaticamente con il dovuto senno. Non saprei comunque con chi sostituirli, dieci posti sono davvero troppo pochi. La lista, oltre ad essere totalmente inutile, è in perenne modifica. Potrei ripromettermi di fare questo esercizio tutti gli anni; non verrebbe stravolta (certe sono pietre inamovibili che mai, mai, cambierò) ma sono convinta che di un poco potrebbe mutare. Note singolari, non ci sono italiani. Gli unici secondo me degni di rosicchiare la cima dell'iceberg sono Gadda con la cognizione del dolore, e la Coscienza di Zeno di Svevo. C'è una sola donna, immensa, la Bronte, che solleva il dramma delle quote rosa. Grandi esclusi Goethe (su tutti), Dickens, Hugo, Dumas e Checov; di loro, ho letto troppo poco. A naso manca Proust, ma ancora non ho avuto tempo e coraggio di buttarmi nella ricerca del tempo perduto. Tutta la narrativa americana -che amo- è stata accantonata e, mi si perdonerà, dovrà essere tenuta sulle spalle del capitano Achab. Ergo, niente Fitzgerald, Hemingway, Salinger, Faulkner, Poe, Miller, Stein, James, Twain, Steinbeck, Nabokov (un piede in due scarpe), Heller, Pynchon e Foster Wallace (ancora troppo presto per parlare di questi ultimi tre, credo, seppur graditissimi ed amabili). Infine, generalizzando, ho provato a comparare altri libri straordinari che mi venivano in mente accostandoli ad ogni voce della lista qui completata. Al momento nessuno è riuscito a scalzare i presenti. Questo è quanto.

vF

lunedì 21 ottobre 2013

Califone.

I Califone sono una indie post-rock band sperimentale di Chicago, ben considerata dalla critica. Il nome della band deriva da quello dell’azienda Califone International, fabbricatrice di attrezzatura audio comunemente diffusa nelle scuole, librerie e aziende americane.



Breve storia.
Dopo lo scioglimento della sua band precedente, i Red Red Meat, Tim Rutili formò Califone seguendo un progetto personale di musica solo. Tale tentativo diventò presto un vero e proprio progetto musicale con una lista di contribuenti, sia fissi che a rotazione, nella quale entrarono a far parte sia membri della band precedente Red Red Meat che membri di altri gruppi musicali di Chicago.
La musica dei Califone è una combinazione del rock-blues dei Red Red Meat con ispirazioni prese da folk, pop americano, così come da band elettroniche come Psychic TV e Captain Beefheart e rielaborate a riprodurre un suono distintivo e originale.

Attualmente la formazione dei Califone comprende Joe Adamik (batteria), Jim Becker (banjo, violino), Ben Massarella (percussioni) e Tim Rutili (voce, chitarra, tastiera). Ogni membro della band tuttavia usa più strumenti.


Fonte wikipedia


CALIFONE
Roots & Crowns
2006


 di Gabriele Benzing

Ologrammi di un passato contemporaneo, reperti di un futuro remoto. Radici e corone. Spiriti della terra che si nutrono di polveri astrali.
I confini di tempo e spazio in cui fluttua la musica dei Califone hanno contorni indefiniti come ombre di fantasmi. Folk e blues come dramatis personae, maschere ancestrali riportate in scena attraverso un processo di destrutturazione e ricomposizione: questione di vento e silicio, corde e laptop, Dock Boggs e Phil Elvrum.

Ecco allora il tema portante della nuova fatica dei Califone: “Unire quello da cui vieni – le tue radici – con quello verso cui ti sforzi di arrivare – il coronamento”. “Roots & Crowns”. A spiegarlo è la mente pensante dell’ ensemble di Chicago, Tim Rutili: “Al fondo di queste canzoni ci sono le memorie e le immagini passate al setaccio nel corso del processo”, aggiunge.
L’ispirazione trae origine dalle pagine di un romanzo dello scrittore canadese Robertson Davies, “The Rebel Angels”, ironica vicenda di pulsioni omicide all’interno del microcosmo universitario, in cui le ambizioni accademiche di una delle protagoniste si trovano a fare i conti con le radici di un’origine zingara: “le nuove canzoni riguardano proprio questo: da dove vieni, dove sei, dove stai andando”, spiega ancora Rutili.

Riappropriarsi della tradizione ricevuta in eredità, senza accontentarsi di una stantia riproduzione del passato: sin dall’inizio della loro carriera, è sempre stata questa la sfida dei Califone. Come una rinascita che ha in sé la densità della memoria, come la luce di un nuovo giorno che dissipa le ombre della notte: “In the morning after the night/ I fall in love with the light/ it is so clear I realize/ and now at last I have my eyes”. Non c’è da stupirsi, allora, che il brano maggiormente rappresentativo di “Roots & Crowns” sia proprio una cover: i Califone rendono omaggio alle influenze della loro musica con una trasognata resa di “The Orchids” degli Psychic T.V., che Rutili racconta di avere ascoltato senza sosta durante la lavorazione dell’album, trovando tra le pieghe di quella soffice melodia lo spunto per ricominciare a scrivere canzoni.


Originale

Cover

Dopo il tour di “Heron King Blues”, Rutili è tornato a dedicarsi per qualche tempo alla propria passione per le colonne sonore, già esplorata in passato nei due volumi di “Deceleration”. Una pausa che ha rigenerato le energie dei Califone, contribuendo alla nascita del nuovo disco della band americana, registrato tra Chicago, Los Angeles, Phoenix e Long Beach nell’arco di sei mesi con la consueta collaborazione di Brian Deck, al fianco di Rutili sin dai tempi dei Red Red Meat.
Brani nati da melodie canticchiate al volante e catturate dal registratore di un cellulare, suggeriti da conversazioni ascoltate per caso, costruiti su disordinate raccolte di loop e field recording, innervati di palpiti e fruscii trovati tra le mura dello studio: “Ci siamo presi il nostro tempo per plasmare e manipolare un collage di suoni maggiormente sperimentale e tradurlo in solide melodie e in strutture di canzoni più concise”, racconta Rutili. E, a quanto pare, da “Roots And Crowns” è stato scartato abbastanza materiale per riempire almeno altri quattro dischi…

I tribalismi ritmici di Ben Massarella introducono il ribollente incipit di “Pink And Sour”, trafiggendo uno scheletro blues di schegge elettriche fulminee come pallottole vaganti. Ma subito il tono si distende inaspettatamente con “Spider’s House”, una delle composizioni più lievi ed ariose mai realizzate dai Califone, con il prezioso contributo di una sezione di fiati presa in prestito dagli amici Bitter Tears e con un pianoforte reso acuminato dall’uso di nastro adesivo e graffette applicate alle corde.



Tra le ombre scarne e vibranti delle chitarre acustiche che guidano i mosaici di brani come “Sunday Noises” e “Our Kitten Sees Ghosts”, a spiccare sono i clangori e le distorsioni della tagliente “A Chinese Actor”, accanto alle deviazioni ed ai cambi di ritmo di “Black Metal Valentine”, incalzante rassegna di drumming plastico e sibili sintetici. Invenzioni percussive e chitarre frastagliate, insieme al mormorio brumoso di Rutili, avvolto dall’accompagnamento di diafani cori, sono il tessuto connettivo di “Roots & Crowns”, che i Califone immergono in una costante nebulosa di indecifrabili interferenze.



La danza atavica di un violino folk accompagna il breve intermezzo strumentale di “Alice Crawley”, lasciando spazio alla voce d’oltretomba ed ai battimani zombie di “Rose Petal Ear”. Ma è con “3 Legged Animals”, nuova versione di un brano scritto originariamente da Rutili per il thriller-horror “The Lost”, che l’equilibrio formale raggiunto da “Roots & Crowns” arriva a conquistare davvero una compiutezza degna degli Wilco, tratteggiando un desiderio di rinascita che sembra scaturire dalle tracce di “A Ghost Is Born”: “Leave your memories, we’re almost new/ sleep for me sleepless/ dream for me dreamless”.
“Roots & Crowns” si pone così come il vertice di un itinerario sotterraneo nel cuore della musica americana. Nelle atmosfere notturne di “Heron King Blues” filtra un inatteso spiraglio di luce, nelle sfaccettate frammentazioni di “Quicksand/Cradlesnakes” si fa strada una nuova coesione: il tempo del coronamento, per i Califone, giunge come la fioritura di un albero il cui frutto si riconosce dalle radici.





Califone, 'Stitches'.
- 2013 -
Istanti. Frammenti. A volte la vita sembra fatta di brevi attimi che si susseguono uno dopo l’altro senza soluzione di continuità. Quello che conta è il filo che tiene legate le pagine, la trama capace di ricondurre ogni cosa ad unità: cuciture, rammendi, suture. “Stitches”, il titolo scelto da Tim Rutili per il ritorno dei Califone dopo quattro anni di pausa, si rifà proprio a questo: ai legami che tengono uniti i pezzi, ai punti che richiudono le ferite. A ciò che può infondere all’individualità di un pugno di canzoni l’appartenenza a una visione comune.

Ha un’anima multiforme, “Stitches”. “Abbiamo trattato ogni brano come un pianeta a sé stante”, afferma Rutili. “Volevo che questo fosse un disco più schizofrenico, capace di unire insieme trame ed emozioni confliggenti”. Da qui la scelta di allontanarsi da Chicago e di lasciare che le registrazioni si articolassero senza un baricentro unitario, tanto dal punto di vista geografico quanto da quello umano. California, Arizona, Texas. Nella cabina di regia, rispettivamente, Griffin Rodriguez, Michael Krassner e Craig Ross. “Coinvolgere persone differenti e registrare in luoghi differenti ha contribuito a conferire una certa tensione all’insieme”.
Scenari compositi per condividere la medesima voce: “Durante il processo di lavorazione del disco, ho cominciato a guardarmi allo specchio e a trovare una voce più chiara e autentica”, continua Rutili. “Mi sono concesso il massimo di vulnerabilità che potevo tollerare”. Rinunciare a nascondersi e uscire allo scoperto diventano così gli imperativi di uno dei lavori dai tratti più personali tra quelli realizzati da Rutili sotto l’egida Califone.

L’approdo segna un ulteriore avvicinamento del gruppo alle architetture più classiche della canzone: lo testimonia subito lo spoglio incipit acustico di “Movie Music Kills A Kiss”, con una linearità di sviluppo appena screziata dall’insinuarsi di punteggiature di tastiera. Gli accenti rock in chiave Wilco si fanno più marcati che mai sulla batteria carica di enfasi di “Frosted Tips”, mentre la title track si avviluppa vaporosa a un beat dal passo lieve.
Sono però gli orizzonti desertici di “moonbath.brainsalt.a.holy.fool” a tratteggiare nella maniera più emblematica i paesaggi di “Stitches”, evocando le visioni di frontiera di Howe Gelb sul suo srotolarsi polveroso, tra echi di armonica e di pedal steel. Per Rutili, è il riflesso palpabile dei luoghi in cui l’album è nato: “Quei panorami aridi, quelle spiagge, quelle colline e quei centri commerciali sono tutti diventati parte della musica del disco”.

Il vento porta con sé storie che vengono da lontano, intessute di suggestioni bibliche. L’andamento pianistico di “Magdalene” si accompagna di fiati e cori come una sorta di country-gospel agnostico, il cammino verso la terra promessa si dipana attraverso gli archi cinematografici di “Moses”. Individui unici e archetipi universali, i cui volti si sfaldano tra i suoni liquidi della conclusiva “Turtle Eggs / An Optimist”.
Tutto trova la sua sintesi nel video ideato da Braden King per “Stitches”, basato su una sequenza casuale di immagini tratte da una selezione di pagine Tumblr. Un video ogni volta diverso, come una finestra aperta sull’anima del mondo: “È il modo in cui esprimiamo e condividiamo le nostre storie”, riflette Rutili. “Speriamo che gli altri possano rapportarsi con quello che facciamo e forse trovare conforto e ispirazione. La magia di prendere queste strane, oscure e meravigliose immagini dall’etere (o dalla coscienza collettiva) per creare il video riflette perfettamente quest’idea”.


Eppure, nel suo procedere dal multiforme all’uno, “Stitches” sembra fermarsi a un punto incompiuto: il progressivo accostarsi dei Califone a fisionomie più consolidate trasfonde solo in parte la personalità del gruppo. Al di là degli intenti, resta quasi un pudore di Rutili a rivelarsi fino in fondo troppo apertamente, che lascia le canzoni di “Stitches” sospese tra concretezza e astrazione. La trama dei Califone a venire è un filo ancora da intrecciare.

Fonte ondarock.it

Piers Faccini.

Pier Faccini.
Londra, 1992.



Piers Faccini (Piers Damian G. Faccini) (Luton, 1972) è un musicista britannico.
Nato nel 1972 da padre italiano e da madre inglese, si trasferisce in Francia all'età di cinque anni.
Dopo aver frequentato l'Eton College, inizia ad esibirsi pubblicamente in campo musicale in Inghilterra.
Piers Faccini fa parte dei dieci artisti selezionati dalla giuria del Prix Constantin nel 2009 per il suo album Two Grains of Sand.


Fonte wikipedia





Album
Piers Faccini, 'Between dogs and wolves'.
- 2013 -

Al quinto capitolo discografico, l’artista anglo-italiano di stanza in Francia sembra non avere più quell’urgenza che ha caratterizzato il suo percorso artistico. Accantonate le pulsioni jazz e blues dei primi due album e le curiosità etniche di “My Wilderness”, Piers Faccini si regala una pausa da cantautore puro, omaggiando la tradizione di Leonard Cohen, Bob Dylan e Bonnie "Prince" Billy in un album dai toni crepuscolari e raffinati. Chitarra e piano reggono le fila di un suono sempre più delicato e intimista, poche tracce di violoncello e l’assenza di percussioni caratterizzano il disco come il più personale e sentito dell’artista.
Between Dogs And Wolves” è una pausa di riflessione e introspezione, un progetto che mette in evidenza luci e ombre di un artista ormai consacrato allo status di cult: l’edizione limitata oltre a offrire un raffinato libricino dei testi aggiunge anche un album di cover version, confermando la volontà di Faccini di esternare tutta la sua poetica. 

Il suo approccio multiculturale resta apparentemente in sordina in questo album dai toni più delicati; la classe e la padronanza della voce sempre calda e avvolgente trascinano infatti l’ascoltatore in un’altra vivida carrellata di emozioni semplici e confortevoli. Nella tradizione del miglior cantautorato folk, Piers Faccini concentra l’attenzione sulla composizione, donando al suo pubblico alcune delle sue pagine migliori: “Black Rose” e “Broken Mirror” aprono il disco con un’intensità lirica che sembra rubata al Nick Drake di “Five Leaves Left” o a John Renbourn.


E' infatti un susseguirsi di canzoni tanto gentili quanto vibranti e intense: l’artista sfida le regole dell’industria musicale attuale regalandoci un album difficile da spezzettare in piccoli clip da adattare alle esigenze del web, per una fase introspettiva malinconica e introversa che dà forma a brani come “Girl In The Corner” e “Feather Light”, che sfidano la fruizione tocca e fuggi di YouTube.

Non è un caso che Piers Faccini abbia pubblicato in vinile le sue ultime opere discografiche: la sua è una musica che chiede attenzione anche quando i toni si fanno più romantici, come in “Wide Shut Eyes”, o più elaborati come nella jazzy “Pieces Of Ourselves”. Il suono cristallino di “Missing Words” e la fragilità di “Reste La Marée” sono pagine preziose, che, pur incastonate tra gioiellini di purezza lirica, come appunto la già citata “Black Rose” e “Like Water Like Stone” (che aprono e chiudono l’album), hanno la forza per trascinare questo lavoro nel miglior cantautorato contemporaneo.


Non nego che spesso durante l’ascolto ho avuto dei piccoli flash che mi rimandavano al nostro Fabrizio De André. La presenza di una canzone cantata in italiano ha rafforzato questa sensazione: “Il Cammino” è non solo un sentito omaggio all’Italia ma anche una delle pagine più fragili e liriche del disco.
Con “Between Dogs And Wolves” Faccini entra comunque prepotentemente nella ristretta cerchia dei poeti del nuovo folk, e lo fa rinunciando a quelle nuance che smorzavano l’essenzialità del suo scripting, catturando quell’integrità lirica che il cantautore anglo-italiano aveva finora inseguito senza mai raggiungerla del tutto.

Fonte ondarock.it

domenica 20 ottobre 2013

Casa di bambola.

"Casa di bambola''.  Metafora allegorica e strettamente intima capace di fondere al proprio interno quella 'trattativa' donna-società dalla quale è ancor oggi troppo difficile emergere. che essa avvenga tramite armistizio o mediante via di fuga bombardiera. ''Casa di bambola'' è anche, e soprattutto, un testo teatrale di Henrik Ibsen, (che consiglio vivamente) composto dallo scrittore norvegese nel 1879. Se ci pensate anche solo un attimo, è scioccante proprio la data nella quale venne partorita l'opera. Un manifesto della presa di coscienza femminile, la rottura del concetto storico di relazione tra uomo e donna, una descrizione attualissima dell'alzare la testa, lasciandosi alle spalle il nido/gabbia sicuro e opprimente. Quando conferirono il primo Nobel letterario a Sully Prudhomme, un giornalista svedese elencò undici autori che meritavano il premio con ben maggiore urgenza. Di questi, nove lo vinsero nel quindicennio successivo. Uno dei due poveretti rimasti a secco era proprio Ibsen, a cui l'Accademia preferì il tradizionalissimo Bjornsson.

vF

Foto creata da vF

mercoledì 16 ottobre 2013

'novecento

"Novecento" di Bernardo Bertolucci mi ha sempre lasciato l'amaro in bocca. È indubbiamente un capolavoro del cinema nostrano, ed una pellicola di oggettivo respiro internazionale (nel cast presenti anche Robert De Niro, Donald Sutherland, Gerard Depardieu e Burt Lancaster), ma la sensazione di estrema faziosità che pervade buona parte del film mi ha sempre infastidito. Il manicheismo di "Novecento" è semplicistico e riuscirebbe a far storcere il naso anche al Marxista più convinto. La contrapposizione tra i fascisti "supercattivi assassini senz'anima" ed i comunisti "angeli del paradiso puri ed infallibili" rovina ed appanna il film; non certo per fini ideologici, ma per mancanza di polso storico ed umano. Dimenticando un'Italia che ha in gran parte approvato il fascismo battendosi il pugno sul petto fino all'alba del tonfo finale. Restano però, sullo sfondo, una grande storia e le grandi scene di vita contadina, tra le più calzanti e significative del cinema italiano.

vF




'Battle Box' un album a prova di 'bomba'.

Battle Box, 'Battle Box 001' - 2012 -


Battle Box 001


Battle Box
 (Remix By Guy Andrews)

Beati quelli il cui atteggiamento verso la realtà è dettato da immutabili ragioni interiori!

Vero, ''Beati quelli il cui atteggiamento verso la realtà è dettato da immutabili ragioni interiori! 
(da Un'amara serenità, in Una pietra sopra, 1980).


Le mille contraddizioni del boom economico nell'Italia del secondo dopoguerra, con una natura dimenticata a forza ed infilata sotto il tappeto dal progresso. Il tutto visto attraverso gli occhi dell'ingenuo e sfortunato protagonista di immonde storie.

Sarà la centesima occasione per ribadirlo: mea opinione, Italo Calvino è uno scrittore sopravvalutato. L'etichetta di "più importante scrittore italiano del secondo Novecento", mi è sempre sembrata esagerata. Esagerata e smemorata: in un solo virgolettato spariscono Gadda, la Morante, Primo Levi - più un elenco di poeti che forse sono la parte più notevole della letteratura italiana di quegli stessi anni. Azzardo: negli USA la letteratura italiana è quasi un'appendice di Calvino; in Svezia l'ex presidente della giuria accademica disse che se fosse vissuto qualche anno in più avrebbe avuto il Nobel; quel che più mi sbalordisce è come un libro stucchevole e brutto come "Se una notte d'inverno un viaggiatore" possa essere considerato un classico. L'ultima delle sue pur bellissime "Lezioni americane", Molteplicità, è invecchiata male: autori di ingegnosi giochetti letterari come Perec o Queneau passano per scrittori. Non so, non so. So però che: "il più importante scrittore italiano del secondo novecento" no, ma personalmente lo reputo un godibilissimo scrittore, sicuramente non posizionabile nel podio. Sempre se ha un senso (e non lo ha) usare il termine "podio" in un settore così emotivo e di gusto estremamente soggettivo come la letteratura.

Auguri per i 90'anni, questa è la sola cosa certa.

vF

martedì 15 ottobre 2013

Air.

    Nicolas Godin                  Jean-Benoit Dunckel
Air

Un lounge-party alieno

Tastiere vintage e vocoder, voci angeliche e languori psichedelici, ritornelli zuccherosi e un gusto orchestrale irresistibilmente retrò. Con un decisivo french touch a suggellare la saldatura perfetta tra passato e futuro. Gli Air hanno coniato un nuovo linguaggio electro/pop, invertendo il corso di un decennio intero. La saga retrofuturista degli spacemen francesi.

We are the syncronizers
Send messages through time code
Midi clock rings in my mind
Machines gave me some freedom
Synthesizers gave me some wings
They drop me through twelve bit samplers
We are electronic performers
We are electronics


(Air, "Electronic Performers")





Umiliato e offeso, spedito in esilio per un decennio come residuo di un passato sconveniente (i vacui e sintetici Eighties), il pop elettronico rinasce alla corte di Versailles alla fine degli anni Novanta e prepara una clamorosa riscossa.

Artefici del "golpe", due giovani ex-studenti apparentemente dediti a tutt'altro. Jean-Benoit Dunckel insegna matematica, ma ha studiato musica classica al conservatorio di Parigi e suona per hobby in una formazione indie-pop di nome Orange. Ed è proprio un componente della band, Alex Gopher, a metterlo in contatto con Nicolas Godin, brillante neo-laureato in architettura, pronto tuttavia a deporre righello e goniometro in nome della musica. 
I due formano gli Air nel 1995. Il nome è un omaggio al grande architetto svizzero Le Corbusier, idolo di Godin. Appassionati di tecnologia e di modernariato musicale, i due novelli corrieri cosmici setacciano vecchi Korg e Rhodes, assieme a svariati modelli di vocoder. E meditano una missione impossibile: usare la loro sapienza elettronica, temprata dall'ascolto di numi come Kraftwerk, Jean-Michel Jarre e Vangelis, per riportare alla luce addirittura l’easy listening, le sonorità più retrò della madrepatria e non solo (Serge Gainsbourg, Françoise Hardy, colonne sonore anni 60-70, exotica, chill-out, lounge music), senza disdegnare di sporcarsi le mani con tutto ciò che, fino a quel momento, era stato messo al bando dall'indie-mondo (Euro-disco? Space-disco? Sì, perfino loro...). È un'alchimia perfetta: l'approccio più sperimentale ed elettronico di Godin si combina con la formazione più classica di Dunckel, che apporta il decisivo tocco melodico.

Il "Nouvel Beat"
Non è solo la quantità di glucosio a fare la differenza tra la crema e la melassa. È un sottile equilibrio chimico, un dosaggio mirato degli ingredienti. E gli Air possiedono questa formula magica, che in due parole si potrebbe definire "buon gusto". Anche quando ammiccano al kitsch e all'easy listening, infatti, Godin e Dunckel non affondano mai nel pantano delle banalità, anche solo per merito della straordinaria qualità dei loro arrangiamenti, imperniati su un connubio originalissimo tra tecnologia digitale e strumenti tradizionali. Ma la musica degli Air può vantare soprattutto una qualità unica: è "a-temporale", incapace di farsi datare o datata, proprio perché interamente onirica e priva d'ogni aggancio con la realtà. "Quando sei immerso nel liquido amniotico non hai nessuna consapevolezza del tempo, né di dove sei. È così quando componiamo in studio", ha spiegato Dunckel. 

Nel 1996 esce il loro primo singolo "Modular Mix", seguito da "Casanova 70" e da "Le Soleil Est Prés De Moi". Sono brani raffinati e divertenti, a metà tra easy listening e pop acidulo alla Stereolab, che permettono agli Air di conquistare già una buona credibilità internazionale. Artisti come Depeche Mode e Neneh Cherry li reclutano per remixare i loro pezzi. E anche Jean-Jacques Perrey, padre della "musica concreta", li vuole al suo fianco.






'Moon safari', Air.
Ma è il 1998 l'anno della svolta: arruolati dalla Virgin, gli Air pubblicano l'album d'esordio Moon Safari. Debitore di Burt Bacharach, Serge Gainsbourg ed Ennio Morricone, più che di Derrick May o Aphex Twin, il disco rielabora l'easy listening in un'ottica d'avanguardia, con una cura maniacale per i dettagli e un'orchestrazione complessa: tutti gli strumenti sono suonati dal vivo, senza ricorrere ad alcun tipo di campionamento, con arrangiamenti magistrali che diverranno il marchio di fabbrica del duo. Ecco allora chitarre acustiche e cascate di sintetizzatori analogici, voci celestiali e vocoder, Moog e violini, Wurlitzer e tuba: quella del "safari sulla Luna" è musica purissima allo stato gassoso, polvere di stelle dall’abbacinante appeal melodico. La voce caramellata dell’americana Beth Hirsch si fonde con gli archi (registrati ad Abbey Road), con i ritmi in bassa battuta del trip-hop, con inflessioni chill-out e squarci di psichedelia à-la Pink Floyd, disegnando paesaggi sonori lussureggianti. 
L'iniziale "La Femme d'Argent" è una splendida intro psichedelica, con una sinuosa linea di basso che si innesta su un tappeto di tastiere analogiche, dialoga con il Moog e si lascia cullare da languori jazzati, infondendo un senso di quiete quasi “pastorale”. "All I Need" e "You Make It Easy" - i due brani cantati da Beth Hirsch - suggellano un nuovo genere di soul-pop aurorale, intriso di candida dolcezza. 
Tra i suoni seventies riciclati, si segnalano il sempiterno kraut-rock ma anche qualche reminiscenza canterburyana, tangibile soprattutto nell'uso di alcuni fiati (il flauto di "All I Need", i corni di "Ce Matin Là" e di "Le Voyage de Pénélope").
La spinta electro-dance trascina i due singoli, la bugglesiana e quasi disco "Kelly Watch The Stars", omaggio alla più stylish delle Charlie's Angels, con tanto di videoclip nostalgico che riesuma il principe dei videogame d’antan (“Pong”), e l’incalzante "Sexy Boy", quasi una revisione post-moderna dell’arte bowiana dell’hook: due gioiellini vocoder-pop che spopoleranno su entrambi i lati dell’Oceano.
Il romanticismo prende invece il sopravvento in "Talisman", tenera sinfonia per archi e synth, e nella serenata conclusiva di “Le Voyage De Penelope”, dove il tremolio del Korg regala nuovi brividi galattici e il sax trasporta in qualche fumoso bistrot parigino.
L'ascoltatore rimane intrappolato nelle spire morbide di questo sound da lounge-party spaziale, da notti "retroglamour" senza fine. E alla fine, inesorabilmente, soccombe.







"Kraftwerk affogati nello sciroppo alle fragole" o "il mondo visto attraverso il vetro di una coppa di champagne" sono solo alcune tra le più curiose definizioni di Moon Safari, che venderà oltre un milione di copie in pochi mesi, conquistando anche la Victoire de la Musique come album techno/dance dell'anno, e diverrà uno dei feticci musicali più cool dei Novanta (pur essendo distante anni luce dai suoni dominanti di quel decennio). 

Una riscossa che non è solo di un genere, ma di una nazione intera. Gli Air, infatti, rappresentano l'avamposto "pop" (legato alla canzone, più che al groove) di quel French Touch che sta conquistando il mondo a suon di vocoder e altre chincaglierie. A guidarlo, una folta pattuglia di musicisti-produttori-dee jay: Laurent Garnier, Daft Punk, St. Germain, Cassius, Motorbass, Dimitri From Paris i più noti. Tutti con un'idea in testa della musica dance come ibrido mutante di sonorità variegate: disco, lounge, electro, funk, exotic etc. Alcuni di loro (Cassius, Modjo, Etienne de Crecy, Saint Etienne) iniziano a citare proprio gli Air come "maestri"; mentre i cuginetti techno-house Daft Punk regalano sentiti omaggi ("Digital Love"); e sul duo di Versailles viene persino ritagliato un genere musicale su misura, dall'improbabile nome di "Easytronica".

Se il fatto musicale è rilevante, quello di costume non è da meno. Con l'estetica-Air, torna alla luce tutto un immaginario seventies rimasto sepolto sotto strati di polvere nei due decenni successivi: le tutine di Ziggy Stardust, i telefilm di Spazio 1999, gli horror cheap, i synth gracchianti di "Arancia Meccanica", le crystal-ball appiccicose, i videogiochi della prima generazione, le lavalamp colorate, nonché, ovviamente, intere cataste di organi e tastiere d’epoca.
'Premiers Symptomes',
 Air. - 1999 -
A suggello del momento d'oro, esce nel 1999 Premiers Symptomes, che raccoglie alcuni dei primi singoli degli Air usciti su Source, come "Casanova '70", uno degli apici romantici dell'intero revival lounge, il trip lisergico di "Brakes On", il soul eccentrico di "Modular Mix", o il pop galattico di "Le Soleil Est Pres De Moi".


The dark side of the Moon Safari
Un anno dopo, il duo di Versailles viene ingaggiato da Sofia Coppola, figlia di Francis Ford e astro nascente di Hollywood, per comporre la colonna sonora del suo primo lungometraggio, The Virgin Suicides (2000). Tratto dal romanzo omonimo di Jeffrey Eugenides e basato su una storia vera, accaduta in una periferia di Detroit (Michigan) nel 1974 (il suicidio collettivo delle cinque sorelle Lisbon), il film è un ritratto tragico dell'adolescenza, nonché il primo capitolo di una sorta di trilogia sulla solitudine femminile che la regista americana completerà con i successivi "Lost In Translation" e "Marie Antoinette". La colonna sonora degli Air ne è architrave portante, decisiva nell'insinuarsi nelle pieghe degli eventi e nell'acuirne la dimensione onirica e surreale.

La sfida più delicata, per i due spacemen francesi, era quella di calare la loro luccicante astronave nel buco nero dell'angoscia, senza tuttavia smarrire la "levità" del tocco. Una sfida vinta a mani basse. La chiave, stavolta, è la psichedelia più soffusa dei 70, quella dei Pink Floyd di "The Dark Side Of The Moon": gli Air la trapiantano nelle atmosfere funeree del film, insufflandole, paradossalmente, nuova vita. 



Godin e Dunckel si circondano di una gamma di strumenti ancora più ricca. Basso e batteria (quest'ultima suonata da Brian Reitzell) imbastiscono una sezione ritmica implacabile, che pulsa sangue negli intarsi rarefatti delle tastiere vintage (Moog in particolare), mentre le chitarre, sempre molto gilmouriane, disegnano trame torbide, contrappuntate da spettrali volute d'archi. 

L'overture "Playground Love" è l'unico pezzo vocale (interpretato in inglese dall'outsider Gordon Tracks), e si distende in una delle loro tipiche ballate sinuose e avvolgenti, con un bel solo di sax in evidenza. E' anche l'unica concessione alle forme del pop: le altre dodici tracce, infatti, tutte strumentali, sono concepite in un'ottica quasi progressive, con la reiterazione di spunti e temi che accompagna idealmente il crescendo drammatico del film. Una tensione che comincia a crescere già dalla seconda traccia, "Clouds Up", ovvero le paranoie dei Faust evaporate tra le nuvole, e che infiamma sottopelle i riff di chitarra elettrica di "Bathroom Girl". Il "Cemetary Party" è già smarrimento psichico: voci femminili operatiche sepolte nel mixer, battiti meccanici, colpi d’organo quasi impercettibili. Dopo la quiete densa di segnali sinistri ("Dark Messages"), si prepara l'ineluttabile tempesta ("The Word 'Hurricane'"): la voce campionata risuona asettica, in un vuoto pneumatico riempito da effetti e distorsioni. 
Da qui in poi, è una rapida discesa nel baratro. "Dirty Trip", stupenda cavalcata lisergica di oltre sei minuti, viene sospinta da un basso pulsante lungo un sentiero lastricato di synth, che stridono e urlano, fino all'orrorifica accelerazione finale. "Highschool Lover" - praticamente una versione strumentale di "Playground Love", con una citazione dalla floydiana "The Great Gig In The Sky" - e "Afternoon Sister", col suo uso controllato di Moog e archi, sembrano fluire placidamente, ma le detonazioni di chitarra e l'organo da chiesa di "Ghost Song" sono già campane a morto. La casa si svuota della vita ("Empty House") e il ritrovamento dei cadaveri ("Dead Bodies") è una terrificante apoteosi: clavicembali impazziti, vortici di synth e un drumming che infuria con foga inusitata. L'epitaffio di "Suicide Underground" - una voce processata al computer che narra la storia su una coltre di organi funerei - chiude il disco nel segno di quella stessa mestizia incredula che il film infligge allo spettatore.
Mai più così drammatici, epici e struggenti, gli Air di The Virgin Suicides coronano un'impresa di cui non tutta la critica comprenderà la portata. Se i Pink Floyd non fossero ormai solo una sigla lucrosa, oggi, forse, suonerebbero così.

La colonna sonora porta al successo l'opera prima di Sofia Coppola e contribuisce enormemente al suo crescente "hype". Ma gli Air non si riposano sugli allori e, posti di fronte al dubbio se ritornare ai refrain zuccherosi di Moon Safari o sviluppare le intuizioni atmosferiche di The Virgin Suicides, scelgono una terza via, non meno ambiziosa.

Do androids dream...
'10.000 Hz Legend', Air. - 2001 -
Con 10.000 Hz Legend (2001) Dunckel e Godin confezionano un album "solido" e posato, più esplorativo dei precedenti, ma ben ancorato al singolare gusto melodico della coppia. L'irrequietezza naif che li ha sempre contraddistinti è ben presente tra questi solchi, che ispessiscono le dolcezze di Moon Safari in un turbinio di elettronica "seria", spandono qualche cupezza analogica ma poi riportano tutto a casa con improvvise accensioni di archi e melodie in viaggio attraverso il tempo. 
Alla base del disco c'è l'idea di un altro pianeta, pieno di megalopoli popolate da androidi. Autoironici fino all'eccesso, gli Air raccontano di amori venusiani e di situazioni inverosimili. Le influenze musicali più evidenti sono i Kraftwerk e i Pink Floyd, tra lo splendore della quadrifonia e la supremazia dei macchinari. Le frivolezze miste a miele sono riservate a un paio di pezzi, giusto la strumentale "Radian", con le sue eteree arpe che introducono fiati gentili, e "People In The City", che rivanga i fasti del passato senza troppa nostalgia.
Il resto dell'album accantona la poetica delle loro ballate in favore di un sound più maturo, che incrocia asperità elettroniche e delicatissimi archi, tensioni e melodie. "La forma-canzone, che sta alla base dell'idea di pop, continua a ossessionarci, ma abbiamo deciso di renderla più secca, diretta, priva di abbellimenti fini a se stessi", spiega a proposito del disco Nicolas Godin. E' il caso di "Electronic Performers", manifesto programmatico dell'album, che inserisce arpeggi di chitarra su una solida base ritmica; di "Radio #1", esecuzione corale dal gusto vagamente kitsch ma intrigante all'eccesso, che vive di ritmiche tastiere e termina in un inaspettato tripudio percussivo. Ed è il caso soprattutto dei tre esperimenti finali: "Wonder Milky Bitch", "Don't Be Light" e la meno riuscita "Caramel Prisoner", che pulsano di elettronica attraversata da spruzzi nervosi e poi improvvisamente rilassati sul suono di chitarre arpeggiate con malizia, mischiano colonne sonore anni 70 e avanguardia, rock sinfonico e pop leggero con una disinvoltura forse eccessiva, ma comunque gradevole.
L'uso della tecnologia è dosato con intelligenza: l'elettronica, infatti, è inframmezzata da chitarre acustiche e archi. "L'album è una lettera d'amore alle nostre macchine - spiega Godin - Devi amarle per sapere davvero come usarle nel modo giusto".
Numerosi i contributi esterni, tra cui quello di Beck, che apporta il suo tocco di funky deviato in "The Vagabond". Da lodare infine lo sforzo produttivo e di messa a fuoco del suono operato dai due parigini: tutto in 10.000hz Legend è perfettamente rifinito e serio, a marcare un ulteriore elemento di distinzione rispetto ad analoghi gruppi che affrontano simili tematiche con più faciloneria.
Un disco che non rinnova i fasti del "safari lunare", insomma, ma che conferma il talento cristallino del duo. "La nostra musica è onirica, le nostre canzoni sono come sogni, vogliamo fuggire dalla realtà", raccontava agli esordi Jean Benoit Dunckel. Ora è invece Nicolas Godin a dare la misura del nuovo corso del duo parigino: "Siamo passati dalla fase onirica a quella del reale, dove i contorni delle cose si sono fatti più precisi". 





Air * Baricco, 'City Reading'.
 - 2003 -
10.000 Hz Legend consolida la fama del gruppo anche al di fuori della cerchia musicale. Lo scrittore Alessandro Baricco, ad esempio, li ingaggia per musicare alcuni passi del libro "City". Ne scaturiscono un suggestivo spettacolo teatrale, in cui i landscape vellutati del duo francese donano nuove suggestioni alla narrazione, e un disco (City Reading) che suona però più velleitario che altro. 

Tokyo e fior di ciliegio
E nel segno di collaborazioni prestigiose nasce anche il nuovo lavoro in studio degli Air. Registrato tra Parigi e Los Angeles, Talkie Walkie (2004) reca le stimmate della produzione di Nigel Godrich (già al fianco di Radiohead e Beck), ma anche degli arrangiamenti orchestrali di Michel Colombier, celebre in Francia per aver lavorato a lungo con Serge Gainsbourg. Tutto è ancora più soffuso e dilatato: lo strumento-principe di questo nuovo corso è una sorta di "cantilena spaziale", che gli Air ci propinano ostinatamente dalla prima traccia all'ultima.
Air, 'Walkie Talkie'. - 2004 -
Nell'iniziale "Venus", la voce dell'altro mondo è avvolta in un tappeto di sintetizzatori e circondata da piano, clap e una tastierina soft. Più suggestive, semmai, le atmosfere dream-pop della successiva "Cherry Blossom Girl", che è anche il singolo, con tanto di videoclip girato da un regista di film hard e dedicato alla pornostar americana Tracy Lords. Qui il gusto retrò prende il sopravvento, tra coretti leziosi alla Stereolab, una chitarra acustica, un flauto esotico, suoni sintetici d'antan e varie amenità, incluse voci campionate in stile Art of Noise.
Il gioco delle vocine in loop si rinnova nella successiva "Run", in cui vibrazioni elettriche e tastiere sempre più liquide assecondano una bella sovrapposizione vocale, che cita apertamente i 10cc della storica "I'm Not In Love". Il ticchettio straniante e vagamente industrial di "Universal Traveler" non basta a spezzare questa atmosfera rilassata da cocktail lounge al cognac, tra chitarre arpeggiate e cori femminili pruriginosi. Ma è semmai "Mike Mills" la vera impennata del disco, e non solo per la trovata del titolo, ispirato dal regista di video newyorkese che i due dividono con Beck e Beastie Boys: gli Air azzeccano finalmente una melodia di razza, maestosa e avvolgente, oltre a una sonata di piano che incrocia il minimalismo di Wim Mertens e i Sigur Rós più struggenti. 
Più moconorde l'andamento dei brani successivi. I Beach Boys si trasformano in astronauti nel midtempo di "Surfing On A Rocket", mentre "Another Day" è una "Sexy Boy" al ralenti. Quindi, c'è spazio per un motivetto da fischiettare ("Alpha Beta Gaga"), tra allegre mandolinate e gorgoglii elettronici, e per la discesa nella tetra vertigine di "Biological", con strali di Moog e un altro mandolino, stavolta più teso.
Il viaggio ci lascia soli a Kyoto, tra leggere brezze elettroniche, aromi orientali e scrosci di onde ("Alone In Kyoto", il bel brano presente nella colonna sonora del secondo film di Sofia Coppola, "Lost In Translation").





Talkie Walkie è un sottofondo ideale per viaggi notturni in auto o per incontri romantici. Un carillon fatato che inizialmente seduce, alla lunga può annoiare. Gli Air restano due fuoriclasse, ma stanno cominciando a perdere mordente. "Il mondo visto attraverso una coppa di champagne" rischia di diventare una graziosa sfera di cristallo, nella quale però non si legge più il futuro.

Forse anche per questo, Jean-Benoit Dunckel si concede una divagazione solista, con il moniker Darkel, e ritrova il sodale Godin solo per comporre e produrre il delizioso "5:55" di Charlotte Gainsbourg.

'Darkel', Darkel. - 2006 -
La collezione d'affreschi pop di Darkel (2006) non può essere relegata alla voce manierismo, così come non è da annoverarsi fra le cosiddette svolte epocali. Jean Benoit, insomma, mostra di possederne d'idee, specie quando cerca di ritagliarsi un canzoniere il più possibile distante dell'ingombrante Air-style, per approdare felicemente a un soave pop anni 60. Vanno in questa direzione il delicato singolo "At The End Of The Sky" e la frizzante "My Own Sun", assimilabili più all'indie-pop trasognato degli Austin Lace che non ai rarefatti intrecci del più noto dei French touch. Intrecci che di contro riappaiono, invero appesantiti da cliché un po' abusati, nella salmodia floydiana di "Pearl", nel downtempo chill-out di "Bathroom Spirit" e nell'atmosferico brano per piano e sussurri "Some Men". 
In mezzo ai due estremi, convivono ispirazioni attigue, ma mai esternate prima. È il caso dell'accattivante solennità di "Be My Friend", coi suoi fremiti gobliniani, dei contagiosi boogie elettronici "TV Destroy" e "Beautiful Woman", e del royksoppiano inno proto-ecologista "Earth". La perla nascosta è la struggente ninnananna "How Brave You Are" che, pur essendo con ogni evidenza scippata dal repertorio storico, mantiene intonsa anche la splendida innocenza dei tempi migliori.




**Ormai ricercatissimi in tutto il mondo, gli Air si concedono persino lo sfizio di una compilation da cocktail lounge in cui rivisitano quattro decadi di musica pop condensati in 18 brani (Late Night Tales, 2006). Operazione tanto narcisista - sono francesi, dopo tutto, glielo si può concedere - quanto non priva di sorprese (tra queste, persino una sorprendente versione "soft" di "Planet Caravan" dei Black Sabbath!).**

Una sinfonia tascabile
Dopo tre anni di sconfinamenti, Godin e Dunckel tornano alla casamadre Air per un nuovo, ambizioso progetto. Una "sinfonia tascabile", nata dalla frequentazione di mondi diversi: il Giappone e i compositori à-la Glass. Vale a dire scale di pianoforte che rubano piccoli spazi, innestandosi sul taglio electro-pop.
Air, 'Pocket symphony'. - 2007 -
Pocket Symphony (2007) si innesta in modo concettualmente perfetto nella loro storia. Sia formalmente, sviluppando uno spunto, quello di "Alone In Kyoto", nel modo a loro più congeniale. Sia sostanzialmente, confermando la loro capacità di cesellare delicatessen in salsa pop. 
Binari di piano e batteria elettronica fanno da sfondo al singolo "Once Upon a Time", suadente impasto pop-soul sussurrato da voci trattate e arrangiato soavemente (con sofisticate spolverate di fiati e cristalli). Equamente battuta è un'altra strada: strumentali (o semi-strumentali) in progressione armonica o in reiterazione di paesaggi sonori. Gli Air, però, riescono ancora a spiazzare. È il caso di "One Hell Of A Party", intensa emozione affidata alla voce di Jarvis Cocker: base sonora scheletrica (percussioni e qualche synth) ricoperta da un delicato rivestimento di strumentazione orientale. Ma è anche il caso di "Redhead Girl" e del suo soffice giro di piano, alternato ad eterei vocals. Spunti di livello possono assaporarsi poi in "Napalm Love" e nelle carezze melodiose di "Somewhere Between Waking And Sleeping" (con la complicità di Neil Hannon).
Ciò che resta è mestiere. Servito a volte con grande abilità, come in "Space Maker": bacchette, chitarre acustiche e synth a disegnare un paesaggio in evoluzione. Altre volte meno, come quando si indugia nella banale soluzione melodica di "Photograph", sospesa senza grande equilibrio fra inquietudine e dolcezza. Una sola volta in modo atipico, quando, in "Mer Du Japon", è preponderante la presenza di profumi Stereolab.





Forti di una classe superiore e di un’autorità morale ormai indiscussa sulle nuove generazioni electro/pop, Jean-Benoet Dunckel e Nicolas Godin si accingono a chiudere il loro secondo decennio con qualche ruggine sui loro Moog, ma con stampato sul volto il sorriso di chi ha vinto una scommessa, e delle più temerarie.

Potere del liquido amniotico...
Air, 'Love 2'. - 2009 -
Peccato, però, che Love 2 (2009) spezzi l'incantesimo, consegnandosi a un suono stereotipato e autoindulgente, da chill out fuori tempo massimo.
Autoprodotto dal duo francese, il disco è registrato nel loro Atlas Studio di Parigi, con gran dispiego di strumentazione analogica e il supporto del batterista Joey Waronker. Che manchino gli hit di "Moon Safari" si poteva intuire anche solo dai due singoli scelti ad anticipare l'album: lo sci-fi di "Do The Joy", col suo vocalizzo robotico avvolto in una melodia di synth da B-movie, e "Sing Sang Sung", ninnananna spaziale lontana anni luce dalla soave levità d'una "Kelly Watch The Stars". 
Il resto dell'album non si discosta troppo da questa sofisticata vacuità. Prendiamo una "Love", ovvero il battito bossa-disco della "Rock Your Baby" di George McCrae anestetizzato tra sospiri zuccherosi da lounge-music, o la non meno convenzionale "So Light In Her Footfall", dove tra chitarre acide e synth retrò si inneggia all'Inghilterra con tanto di citazione dal "Canterville Ghost" di Oscar Wilde, nonché quello che forse è il numero più ambizioso del lotto: "Tropical Disease", quasi sette minuti di electro-psych-jazz da bicchiere di Bacardi, che assemblano sax, piano, xilofono e flauto, nonché uno dei più terribili versi mai sussurrati da Dunckel ("Woman/ Make me feel... warm inside"). E a riaccendere le luci delle lavalamp non bastano i tentativi di rinfrescare il sound con la wave sincopata di "Missing The Light Of The Day", la pulsazione afro-exotica di "Night Hunter" o i languori be-bop da club parigino di "African Velvet".
Va un po' meglio quando i due alzano il ritmo, come nel mantra kraut di "Be A Bee" - chitarre spaghetti-western e vocoder che ronza cupo tra i synth distorti, per un esperimento bislacco ma sicuramente apprezzabile - o nell'incalzante strumentale di "Eat My Beat", che pare uscito da un film di James Bond degli anni 60. "Heaven's Light", poi, sprigiona una melodia struggente, mentre un possente rullante prelude a un tripudio di tastiere, in una ideale ascensione verso la luce.
Non si può, tuttavia, non dimenticare i troppi passaggi a vuoto di un disco che si colloca al punto più basso della loro carriera stellare.




A distanza di tre anni, rieccoli in pista con Le Voyage Dans La Lune, lavoro basato
Air, 'Le voyage dans la lune'. - 2012 -
sull'omonimo capolavoro del cineasta francese George Méliès e pensato come colonna sonora del film. Un passo in avanti rispetto al predecessore. Il senso di "sofisticata vacuità" che lasciava l'ascolto del disco, però, non si palesa in questo nuovo lavoro dei parigini dalla patinatura argentata. Il format più pop della loro musica, in questo lavoro, lascia strada e partitura più fluide, meno legate alla forma canzone e comunque alimentate delle dilatazioni sognanti tra la psichedelia e la cosmogonia che li hanno innalzati a divinità della scena electro-pop degli ultimi vent'anni.
Poco più di mezz'ora di una musica che, al solito, scivola via carezzevole tra synth dal gusto Eighties e paesaggi notturni fluttuanti. Il viaggio sulla Luna degli Air vede la luce con l'incedere pesante ed acidulo di "Astronomic Club", per decollare definitivamente nella collaborazione con Victoria Legrand, vocalist di quei Beach House che degli Air non possono che essere debitori. L'intermezzo al piano tipicamente Air "Retour Sur Terre" fa da ponte verso le patinature spaziali, anche queste fin troppo risentite nel corso della carriera dei parigini, di "Parade". Un'orchestrazione dark in slow motion avvolge il docile piano di "Moon Fever", prima che con "Sonic Armada" i nostri dissolvano la loro zuccherosità in una marcia psichedelica che sa quasi di math (!). La misteriosità tremolante delle Au Revoir Simone si presta alla perfezione per la sinistra "Who Am I Now?". Il morbido ponte "Decollage" fa da apripista al galoppo etereo "Cosmic Trip". Siamo alla fine del viaggio con la ballata sibillina "Lava".
Cesellature raffinate, ghirigori curatissimi, una produzione impeccabile. Gli Air danno nuovo sfoggio della loro classe cristallina. Talmente perfetta da risultare artefatta. D'altronde, si tratta di un viaggio sulla Luna, mica della Luna in sé, cosa volevate pretendere?





Contributi di Rudie/Aktivirus ("10.000 Hz Legend"), Marco Bercella ("Darkel"), Ciro Frattini ("Pocket Symphony"), Marco Pagliariccio ("Le Voyage Dans La Lune").


Fonte ondarock.it
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- 2006 -
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Late Night Tales (in precedenza Another Late Night) è una serie di album edita dall'etichetta discografica indipendente Late Night Tales. In ogni album un compositore o un Dj inserisce tracce di altri artisti mixate in un DJ set: l'editore chiede infatti di creare un album con la propria musica preferita, quei brani che li hanno ispirati nel fare della musica la propria professione.
Molti degli album contengono alla fine una story track, letta da inglesi famosi come Brian Blessed e Patrick Moore.



Tracklist

The Cure, 'All Cats Are Grey'.


Black Sabbath, 'Planet Caravan'.


Nino Rota, 'O' Venezia Venaga Venusia'.


The Band, 'I Shall Be Released'.


Georges Delerue, 'Camille'.


Japan, 'Ghosts'.


Scott Walker, 'The Old Man's Back Again'.


Jeff Alexander, 'Come Wander With Me'.


Cat Power, 'Metal Heart'.


Minnie Riperton, 'Lovin' You'.


Tan Dun, 'For The World'.


Sébastien Tellier, 'Le Long De La Rivière Tendre'.


Lee Hazlewood, 'My Autumn's Done Come'.


Robert Wyatt, 'P.L.A.'.


Elliott Smith, 'Let's Get Lost'.


The Troggs, 'Cousin Jane'.


AIR / Alessandro Baricco, 'Musica'.


The Cleveland Orchestra, 'Ravel: Pavane Pour Une Infante Défunte'.


Fonte wikipedia