I Califone sono una indie post-rock band sperimentale di Chicago, ben considerata dalla critica. Il nome della band deriva da quello dell’azienda Califone International, fabbricatrice di attrezzatura audio comunemente diffusa nelle scuole, librerie e aziende americane.
Breve storia.
Dopo lo scioglimento della sua band precedente, i Red Red Meat, Tim Rutili formò Califone seguendo un progetto personale di musica solo. Tale tentativo diventò presto un vero e proprio progetto musicale con una lista di contribuenti, sia fissi che a rotazione, nella quale entrarono a far parte sia membri della band precedente Red Red Meat che membri di altri gruppi musicali di Chicago.
La musica dei Califone è una combinazione del rock-blues dei Red Red Meat con ispirazioni prese da folk, pop americano, così come da band elettroniche come Psychic TV e Captain Beefheart e rielaborate a riprodurre un suono distintivo e originale.
Attualmente la formazione dei Califone comprende Joe Adamik (batteria), Jim Becker (banjo, violino), Ben Massarella (percussioni) e Tim Rutili (voce, chitarra, tastiera). Ogni membro della band tuttavia usa più strumenti.
Ologrammi di un passato contemporaneo, reperti di un futuro remoto. Radici e corone. Spiriti della terra che si nutrono di polveri astrali.
I confini di tempo e spazio in cui fluttua la musica dei Califone hanno contorni indefiniti come ombre di fantasmi. Folk e blues come dramatis personae, maschere ancestrali riportate in scena attraverso un processo di destrutturazione e ricomposizione: questione di vento e silicio, corde e laptop, Dock Boggs e Phil Elvrum.
Ecco allora il tema portante della nuova fatica dei Califone: “Unire quello da cui vieni – le tue radici – con quello verso cui ti sforzi di arrivare – il coronamento”. “Roots & Crowns”. A spiegarlo è la mente pensante dell’ ensemble di Chicago, Tim Rutili: “Al fondo di queste canzoni ci sono le memorie e le immagini passate al setaccio nel corso del processo”, aggiunge.
L’ispirazione trae origine dalle pagine di un romanzo dello scrittore canadese Robertson Davies, “The Rebel Angels”, ironica vicenda di pulsioni omicide all’interno del microcosmo universitario, in cui le ambizioni accademiche di una delle protagoniste si trovano a fare i conti con le radici di un’origine zingara: “le nuove canzoni riguardano proprio questo: da dove vieni, dove sei, dove stai andando”, spiega ancora Rutili.
Riappropriarsi della tradizione ricevuta in eredità, senza accontentarsi di una stantia riproduzione del passato: sin dall’inizio della loro carriera, è sempre stata questa la sfida dei Califone. Come una rinascita che ha in sé la densità della memoria, come la luce di un nuovo giorno che dissipa le ombre della notte: “In the morning after the night/ I fall in love with the light/ it is so clear I realize/ and now at last I have my eyes”. Non c’è da stupirsi, allora, che il brano maggiormente rappresentativo di “Roots & Crowns” sia proprio una cover: i Califone rendono omaggio alle influenze della loro musica con una trasognata resa di “The Orchids” degli Psychic T.V., che Rutili racconta di avere ascoltato senza sosta durante la lavorazione dell’album, trovando tra le pieghe di quella soffice melodia lo spunto per ricominciare a scrivere canzoni.
Dopo il tour di “Heron King Blues”, Rutili è tornato a dedicarsi per qualche tempo alla propria passione per le colonne sonore, già esplorata in passato nei due volumi di “Deceleration”. Una pausa che ha rigenerato le energie dei Califone, contribuendo alla nascita del nuovo disco della band americana, registrato tra Chicago, Los Angeles, Phoenix e Long Beach nell’arco di sei mesi con la consueta collaborazione di Brian Deck, al fianco di Rutili sin dai tempi dei Red Red Meat.
Brani nati da melodie canticchiate al volante e catturate dal registratore di un cellulare, suggeriti da conversazioni ascoltate per caso, costruiti su disordinate raccolte di loop e field recording, innervati di palpiti e fruscii trovati tra le mura dello studio: “Ci siamo presi il nostro tempo per plasmare e manipolare un collage di suoni maggiormente sperimentale e tradurlo in solide melodie e in strutture di canzoni più concise”, racconta Rutili. E, a quanto pare, da “Roots And Crowns” è stato scartato abbastanza materiale per riempire almeno altri quattro dischi…
I tribalismi ritmici di Ben Massarella introducono il ribollente incipit di “Pink And Sour”, trafiggendo uno scheletro blues di schegge elettriche fulminee come pallottole vaganti. Ma subito il tono si distende inaspettatamente con “Spider’s House”, una delle composizioni più lievi ed ariose mai realizzate dai Califone, con il prezioso contributo di una sezione di fiati presa in prestito dagli amici Bitter Tears e con un pianoforte reso acuminato dall’uso di nastro adesivo e graffette applicate alle corde.
Tra le ombre scarne e vibranti delle chitarre acustiche che guidano i mosaici di brani come “Sunday Noises” e “Our Kitten Sees Ghosts”, a spiccare sono i clangori e le distorsioni della tagliente “A Chinese Actor”, accanto alle deviazioni ed ai cambi di ritmo di “Black Metal Valentine”, incalzante rassegna di drumming plastico e sibili sintetici. Invenzioni percussive e chitarre frastagliate, insieme al mormorio brumoso di Rutili, avvolto dall’accompagnamento di diafani cori, sono il tessuto connettivo di “Roots & Crowns”, che i Califone immergono in una costante nebulosa di indecifrabili interferenze.
La danza atavica di un violino folk accompagna il breve intermezzo strumentale di “Alice Crawley”, lasciando spazio alla voce d’oltretomba ed ai battimani zombie di “Rose Petal Ear”. Ma è con “3 Legged Animals”, nuova versione di un brano scritto originariamente da Rutili per il thriller-horror “The Lost”, che l’equilibrio formale raggiunto da “Roots & Crowns” arriva a conquistare davvero una compiutezza degna degli Wilco, tratteggiando un desiderio di rinascita che sembra scaturire dalle tracce di “A Ghost Is Born”: “Leave your memories, we’re almost new/ sleep for me sleepless/ dream for me dreamless”.
“Roots & Crowns” si pone così come il vertice di un itinerario sotterraneo nel cuore della musica americana. Nelle atmosfere notturne di “Heron King Blues” filtra un inatteso spiraglio di luce, nelle sfaccettate frammentazioni di “Quicksand/Cradlesnakes” si fa strada una nuova coesione: il tempo del coronamento, per i Califone, giunge come la fioritura di un albero il cui frutto si riconosce dalle radici.
Ha un’anima multiforme, “Stitches”. “Abbiamo trattato ogni brano come un pianeta a sé stante”, afferma Rutili. “Volevo che questo fosse un disco più schizofrenico, capace di unire insieme trame ed emozioni confliggenti”. Da qui la scelta di allontanarsi da Chicago e di lasciare che le registrazioni si articolassero senza un baricentro unitario, tanto dal punto di vista geografico quanto da quello umano. California, Arizona, Texas. Nella cabina di regia, rispettivamente, Griffin Rodriguez, Michael Krassner e Craig Ross. “Coinvolgere persone differenti e registrare in luoghi differenti ha contribuito a conferire una certa tensione all’insieme”.
Scenari compositi per condividere la medesima voce: “Durante il processo di lavorazione del disco, ho cominciato a guardarmi allo specchio e a trovare una voce più chiara e autentica”, continua Rutili. “Mi sono concesso il massimo di vulnerabilità che potevo tollerare”. Rinunciare a nascondersi e uscire allo scoperto diventano così gli imperativi di uno dei lavori dai tratti più personali tra quelli realizzati da Rutili sotto l’egida Califone.
L’approdo segna un ulteriore avvicinamento del gruppo alle architetture più classiche della canzone: lo testimonia subito lo spoglio incipit acustico di “Movie Music Kills A Kiss”, con una linearità di sviluppo appena screziata dall’insinuarsi di punteggiature di tastiera. Gli accenti rock in chiave Wilco si fanno più marcati che mai sulla batteria carica di enfasi di “Frosted Tips”, mentre la title track si avviluppa vaporosa a un beat dal passo lieve.
Sono però gli orizzonti desertici di “moonbath.brainsalt.a.holy.fool” a tratteggiare nella maniera più emblematica i paesaggi di “Stitches”, evocando le visioni di frontiera di Howe Gelb sul suo srotolarsi polveroso, tra echi di armonica e di pedal steel. Per Rutili, è il riflesso palpabile dei luoghi in cui l’album è nato: “Quei panorami aridi, quelle spiagge, quelle colline e quei centri commerciali sono tutti diventati parte della musica del disco”.
Il vento porta con sé storie che vengono da lontano, intessute di suggestioni bibliche. L’andamento pianistico di “Magdalene” si accompagna di fiati e cori come una sorta di country-gospel agnostico, il cammino verso la terra promessa si dipana attraverso gli archi cinematografici di “Moses”. Individui unici e archetipi universali, i cui volti si sfaldano tra i suoni liquidi della conclusiva “Turtle Eggs / An Optimist”.
Tutto trova la sua sintesi nel video ideato da Braden King per “Stitches”, basato su una sequenza casuale di immagini tratte da una selezione di pagine Tumblr. Un video ogni volta diverso, come una finestra aperta sull’anima del mondo: “È il modo in cui esprimiamo e condividiamo le nostre storie”, riflette Rutili. “Speriamo che gli altri possano rapportarsi con quello che facciamo e forse trovare conforto e ispirazione. La magia di prendere queste strane, oscure e meravigliose immagini dall’etere (o dalla coscienza collettiva) per creare il video riflette perfettamente quest’idea”.
Eppure, nel suo procedere dal multiforme all’uno, “Stitches” sembra fermarsi a un punto incompiuto: il progressivo accostarsi dei Califone a fisionomie più consolidate trasfonde solo in parte la personalità del gruppo. Al di là degli intenti, resta quasi un pudore di Rutili a rivelarsi fino in fondo troppo apertamente, che lascia le canzoni di “Stitches” sospese tra concretezza e astrazione. La trama dei Califone a venire è un filo ancora da intrecciare.
Breve storia.
Dopo lo scioglimento della sua band precedente, i Red Red Meat, Tim Rutili formò Califone seguendo un progetto personale di musica solo. Tale tentativo diventò presto un vero e proprio progetto musicale con una lista di contribuenti, sia fissi che a rotazione, nella quale entrarono a far parte sia membri della band precedente Red Red Meat che membri di altri gruppi musicali di Chicago.
La musica dei Califone è una combinazione del rock-blues dei Red Red Meat con ispirazioni prese da folk, pop americano, così come da band elettroniche come Psychic TV e Captain Beefheart e rielaborate a riprodurre un suono distintivo e originale.
Attualmente la formazione dei Califone comprende Joe Adamik (batteria), Jim Becker (banjo, violino), Ben Massarella (percussioni) e Tim Rutili (voce, chitarra, tastiera). Ogni membro della band tuttavia usa più strumenti.
Fonte wikipedia
CALIFONE
Roots & Crowns
2006
di Gabriele Benzing
Ologrammi di un passato contemporaneo, reperti di un futuro remoto. Radici e corone. Spiriti della terra che si nutrono di polveri astrali.
I confini di tempo e spazio in cui fluttua la musica dei Califone hanno contorni indefiniti come ombre di fantasmi. Folk e blues come dramatis personae, maschere ancestrali riportate in scena attraverso un processo di destrutturazione e ricomposizione: questione di vento e silicio, corde e laptop, Dock Boggs e Phil Elvrum.
Ecco allora il tema portante della nuova fatica dei Califone: “Unire quello da cui vieni – le tue radici – con quello verso cui ti sforzi di arrivare – il coronamento”. “Roots & Crowns”. A spiegarlo è la mente pensante dell’ ensemble di Chicago, Tim Rutili: “Al fondo di queste canzoni ci sono le memorie e le immagini passate al setaccio nel corso del processo”, aggiunge.
L’ispirazione trae origine dalle pagine di un romanzo dello scrittore canadese Robertson Davies, “The Rebel Angels”, ironica vicenda di pulsioni omicide all’interno del microcosmo universitario, in cui le ambizioni accademiche di una delle protagoniste si trovano a fare i conti con le radici di un’origine zingara: “le nuove canzoni riguardano proprio questo: da dove vieni, dove sei, dove stai andando”, spiega ancora Rutili.
Riappropriarsi della tradizione ricevuta in eredità, senza accontentarsi di una stantia riproduzione del passato: sin dall’inizio della loro carriera, è sempre stata questa la sfida dei Califone. Come una rinascita che ha in sé la densità della memoria, come la luce di un nuovo giorno che dissipa le ombre della notte: “In the morning after the night/ I fall in love with the light/ it is so clear I realize/ and now at last I have my eyes”. Non c’è da stupirsi, allora, che il brano maggiormente rappresentativo di “Roots & Crowns” sia proprio una cover: i Califone rendono omaggio alle influenze della loro musica con una trasognata resa di “The Orchids” degli Psychic T.V., che Rutili racconta di avere ascoltato senza sosta durante la lavorazione dell’album, trovando tra le pieghe di quella soffice melodia lo spunto per ricominciare a scrivere canzoni.
Originale
Cover
Dopo il tour di “Heron King Blues”, Rutili è tornato a dedicarsi per qualche tempo alla propria passione per le colonne sonore, già esplorata in passato nei due volumi di “Deceleration”. Una pausa che ha rigenerato le energie dei Califone, contribuendo alla nascita del nuovo disco della band americana, registrato tra Chicago, Los Angeles, Phoenix e Long Beach nell’arco di sei mesi con la consueta collaborazione di Brian Deck, al fianco di Rutili sin dai tempi dei Red Red Meat.
Brani nati da melodie canticchiate al volante e catturate dal registratore di un cellulare, suggeriti da conversazioni ascoltate per caso, costruiti su disordinate raccolte di loop e field recording, innervati di palpiti e fruscii trovati tra le mura dello studio: “Ci siamo presi il nostro tempo per plasmare e manipolare un collage di suoni maggiormente sperimentale e tradurlo in solide melodie e in strutture di canzoni più concise”, racconta Rutili. E, a quanto pare, da “Roots And Crowns” è stato scartato abbastanza materiale per riempire almeno altri quattro dischi…
I tribalismi ritmici di Ben Massarella introducono il ribollente incipit di “Pink And Sour”, trafiggendo uno scheletro blues di schegge elettriche fulminee come pallottole vaganti. Ma subito il tono si distende inaspettatamente con “Spider’s House”, una delle composizioni più lievi ed ariose mai realizzate dai Califone, con il prezioso contributo di una sezione di fiati presa in prestito dagli amici Bitter Tears e con un pianoforte reso acuminato dall’uso di nastro adesivo e graffette applicate alle corde.
Tra le ombre scarne e vibranti delle chitarre acustiche che guidano i mosaici di brani come “Sunday Noises” e “Our Kitten Sees Ghosts”, a spiccare sono i clangori e le distorsioni della tagliente “A Chinese Actor”, accanto alle deviazioni ed ai cambi di ritmo di “Black Metal Valentine”, incalzante rassegna di drumming plastico e sibili sintetici. Invenzioni percussive e chitarre frastagliate, insieme al mormorio brumoso di Rutili, avvolto dall’accompagnamento di diafani cori, sono il tessuto connettivo di “Roots & Crowns”, che i Califone immergono in una costante nebulosa di indecifrabili interferenze.
La danza atavica di un violino folk accompagna il breve intermezzo strumentale di “Alice Crawley”, lasciando spazio alla voce d’oltretomba ed ai battimani zombie di “Rose Petal Ear”. Ma è con “3 Legged Animals”, nuova versione di un brano scritto originariamente da Rutili per il thriller-horror “The Lost”, che l’equilibrio formale raggiunto da “Roots & Crowns” arriva a conquistare davvero una compiutezza degna degli Wilco, tratteggiando un desiderio di rinascita che sembra scaturire dalle tracce di “A Ghost Is Born”: “Leave your memories, we’re almost new/ sleep for me sleepless/ dream for me dreamless”.
“Roots & Crowns” si pone così come il vertice di un itinerario sotterraneo nel cuore della musica americana. Nelle atmosfere notturne di “Heron King Blues” filtra un inatteso spiraglio di luce, nelle sfaccettate frammentazioni di “Quicksand/Cradlesnakes” si fa strada una nuova coesione: il tempo del coronamento, per i Califone, giunge come la fioritura di un albero il cui frutto si riconosce dalle radici.
Califone, 'Stitches'. - 2013 - |
di Gabriele Benzing.
Istanti. Frammenti. A volte la vita sembra fatta di brevi attimi che si susseguono uno dopo l’altro senza soluzione di continuità. Quello che conta è il filo che tiene legate le pagine, la trama capace di ricondurre ogni cosa ad unità: cuciture, rammendi, suture. “Stitches”, il titolo scelto da Tim Rutili per il ritorno dei Califone dopo quattro anni di pausa, si rifà proprio a questo: ai legami che tengono uniti i pezzi, ai punti che richiudono le ferite. A ciò che può infondere all’individualità di un pugno di canzoni l’appartenenza a una visione comune.Ha un’anima multiforme, “Stitches”. “Abbiamo trattato ogni brano come un pianeta a sé stante”, afferma Rutili. “Volevo che questo fosse un disco più schizofrenico, capace di unire insieme trame ed emozioni confliggenti”. Da qui la scelta di allontanarsi da Chicago e di lasciare che le registrazioni si articolassero senza un baricentro unitario, tanto dal punto di vista geografico quanto da quello umano. California, Arizona, Texas. Nella cabina di regia, rispettivamente, Griffin Rodriguez, Michael Krassner e Craig Ross. “Coinvolgere persone differenti e registrare in luoghi differenti ha contribuito a conferire una certa tensione all’insieme”.
Scenari compositi per condividere la medesima voce: “Durante il processo di lavorazione del disco, ho cominciato a guardarmi allo specchio e a trovare una voce più chiara e autentica”, continua Rutili. “Mi sono concesso il massimo di vulnerabilità che potevo tollerare”. Rinunciare a nascondersi e uscire allo scoperto diventano così gli imperativi di uno dei lavori dai tratti più personali tra quelli realizzati da Rutili sotto l’egida Califone.
L’approdo segna un ulteriore avvicinamento del gruppo alle architetture più classiche della canzone: lo testimonia subito lo spoglio incipit acustico di “Movie Music Kills A Kiss”, con una linearità di sviluppo appena screziata dall’insinuarsi di punteggiature di tastiera. Gli accenti rock in chiave Wilco si fanno più marcati che mai sulla batteria carica di enfasi di “Frosted Tips”, mentre la title track si avviluppa vaporosa a un beat dal passo lieve.
Sono però gli orizzonti desertici di “moonbath.brainsalt.a.holy.fool” a tratteggiare nella maniera più emblematica i paesaggi di “Stitches”, evocando le visioni di frontiera di Howe Gelb sul suo srotolarsi polveroso, tra echi di armonica e di pedal steel. Per Rutili, è il riflesso palpabile dei luoghi in cui l’album è nato: “Quei panorami aridi, quelle spiagge, quelle colline e quei centri commerciali sono tutti diventati parte della musica del disco”.
Il vento porta con sé storie che vengono da lontano, intessute di suggestioni bibliche. L’andamento pianistico di “Magdalene” si accompagna di fiati e cori come una sorta di country-gospel agnostico, il cammino verso la terra promessa si dipana attraverso gli archi cinematografici di “Moses”. Individui unici e archetipi universali, i cui volti si sfaldano tra i suoni liquidi della conclusiva “Turtle Eggs / An Optimist”.
Tutto trova la sua sintesi nel video ideato da Braden King per “Stitches”, basato su una sequenza casuale di immagini tratte da una selezione di pagine Tumblr. Un video ogni volta diverso, come una finestra aperta sull’anima del mondo: “È il modo in cui esprimiamo e condividiamo le nostre storie”, riflette Rutili. “Speriamo che gli altri possano rapportarsi con quello che facciamo e forse trovare conforto e ispirazione. La magia di prendere queste strane, oscure e meravigliose immagini dall’etere (o dalla coscienza collettiva) per creare il video riflette perfettamente quest’idea”.
Eppure, nel suo procedere dal multiforme all’uno, “Stitches” sembra fermarsi a un punto incompiuto: il progressivo accostarsi dei Califone a fisionomie più consolidate trasfonde solo in parte la personalità del gruppo. Al di là degli intenti, resta quasi un pudore di Rutili a rivelarsi fino in fondo troppo apertamente, che lascia le canzoni di “Stitches” sospese tra concretezza e astrazione. La trama dei Califone a venire è un filo ancora da intrecciare.
Fonte ondarock.it
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