La
tristezza: un appetito che nessun dolore sazia, scriveva Emil Cioran.
Abbiamo trasformato la tristezza in un problema da superare e non
l'abbiamo riconosciuta come soluzione dei problemi. La tristezza, presa
con maestria, è la chiave di volta della vera felicità: bisogna imparare
a concedersi il lusso di essere tristi.
Costretti
alla felicità, siamo vincolati alla produzione: felice, dal verbo greco
phyo, significa infatti fecondo, produttivo. Ma la nostra è una
felicità intensiva, d'allevamento, i cui frutti troppo grandi e numerosi piegano l'albero che siamo sotto il peso della paura di vivere.
In
questa massificazione della felicità, in quest'obbligo all'abbondanza
soltanto la tristezza può salvarci: l'inquinamento luminoso della nostra
fame chimica di conoscenza ci impedisce di guardare dritti alle nostre
stelle polari. La parola "tristezza" (dal sanscrito trsta, oscuro,
torbido) racconta quel ritorno all'oscurità che è il solo a permettere
una chiara visione del cielo. E se ha ragione Cioran quando scrive che
«se una sola volta fosti triste senza motivo, lo sei stato tutta la vita
senza saperlo», io credo anche che «se una sola volta fosti felice
senza motivo, lo sei stato tutta la vita senza saperlo».
Valentina Fagnani (vF)