giovedì 29 agosto 2013

PJ Harvey; 'Let England Shake' (2011)

L'album della settimana:
Dal Dizionario del Pop-Rock di Gentile e Tonti.






Avremmo potuto scegliere uno qualsiasi dei 13 album che costellano la sua ventennale carriera, per esempio l’album a 5 stelle Rid Of Me del 1993. Ma la verità è che non riusciamo a smettere di ascoltare questo suo ultimo. Buon caldissimo weekend con PJ Harvey e la sua voce imprevedibile.







PJ Harvey | Let England Shake (2011)
26/07/2013

Polly Jean Harvey (1970), dal Dorset, Inghilterra, è una delle cantautrici più importanti degli ultimi vent’anni. Rock, Blues, Folk, Indie, Elettronica: le sue passioni sono multiformi, il suo universo personalissimo e affascinante.

Let England Shake
Island, 2011 – ★★★★

Dopo White Chalk, un ulteriore passo avanti: un album che rintraccia le radici del Folk inglese e lo fa per di più in senso sociale e politico, affrontando nei testi il decadimento della nazione Britannica nei tempi recenti. PJ imbraccia l’autoharp e diventa una cantante di protesta? Non così semplice, molto di più, complice un sound che unisce mirabilmente antico e moderno in una scrittura ispiratissima. Poco da stupirsi se anche questo disco vince il Mercury Prize.

Canzone: The Words That Maketh Murder

"I’ve seen and done things I want to forget
I’ve seen soldiers fall like lumps of meat
Blown and shot out beyond belief
Arms and legs were in the trees

I’ve seen and done things I want to forget
Coming from an unearthly place
Longing to see a woman’s face
Instead of the words that gather pace"


Fonte: dizionari.zanichellipro.it



La favola inquieta di Polly Jean
di Claudio Fabretti, Magda Di Genova

Ha fatto scandalo con i suoi atteggiamenti provocatori e i suoi testi a luci rosse. Ma adesso PJ Harvey è una cantautrice matura. Storia di una ragazza di campagna sulle orme dei poeti maledetti del rock.

E' la ragazza con le mani più fredde e le labbra più calde che io abbia mai conosciuto.

(Nick Cave)

Ai suoi esordi, quando venne generosamente ribattezzata "la nuova Patti Smith", Polly Jean da Yeovil (Inghilterra) replicò con buona dose di sfrontatezza: "Patti chi?". All'epoca, in effetti, gli echi della poetessa del rock risuonavano prepotenti nell'opera di PJ Harvey. Specie nel timbro della voce, scuro, intenso, piegato dalla violenza viscerale delle emozioni. Uno stile forgiato dalla storia del rock e del blues, ma con un'impronta personale altrettanto marcata. 
Per sfondare PJ ha avuto bisogno di effetti speciali. Non tanto sulla musica, quanto sul look. Rossetti scarlatti, mascheroni da dark lady, tute mozzafiato, gonne in finta pelle di leopardo e boa di piume l'hanno accompagnata a lungo nei suoi teatrali concerti, consacrandola femme fatale del rock d'oltremanica. "Era solo una maschera per me - ha spiegato - mi serviva a esorcizzare un momento molto difficile della mia vita. Ma era tutto falso, costruito. Adesso sono cambiata e sul palco mi sento me stessa, come quando vado a fare la spesa".

Più ancora del look e delle pose provocanti, daranno scandalo i suoi testi: una miscela di slogan femministi, angosce religiose e storie a luci rosse, all'insegna di un'ossessiva ambiguità. Qualche assaggio, tanto per iniziare: "Ho giaciuto con il diavolo/ ho maledetto il buon Dio/ rinunciato al Paradiso/ per portarti il mio amore" (da "To Bring You My Love", il suo grande successo del 1995); oppure l'ode alla perdita della verginità di "Happy And Bleeding" (1992); e ancora "Angelene", la storia di una prostituta contenuta in Is This Desire? del 1999: "Amore per denaro è il mio peccato/ Ogni uomo che chiama lo lascio entrare/ Rosa e bianco sono i miei colori/ Ho una bella bocca e occhi verdi". Un repertorio da cantautrice "dannata" che si rifà ai canoni di Tom Waits e, soprattutto, a Nick Cave, vero "alter ego" maschile della Harvey.


Questa volta PJ non può negare: "La prima volta che ho ascoltato un suo disco avevo diciotto anni. Sono rimasta sconvolta dalle sue canzoni e non ho ascoltato altro per molto tempo. La sua musica aveva toccato alcune parti di me in modo così forte... In seguito, sono rimasta scioccata nell'apprendere che era un eroinomane". Superato lo shock, sono arrivati l'incontro tra i due, consacrato nel magico duetto di "Henry Lee" (nell'album di Nick Cave "Murder Ballads"), e una fugace quanto distruttiva relazione (tutte le figure femminili presentate in "The Boatman's Call" sono riferite a lei).

Quella di Polly Jean sembra quasi una storia "di scuola" per una rockstar in erba: una ragazzina magra e nervosa, vagamente disadattata, figlia di genitori libertini, tanto aperti di vedute verso il mondo quanto distratti nell'educazione familiare. In più, aggiungiamo la cornice "oscurantista" del Dorset, profonda campagna inglese, poco incline alle stravaganze. "Ero una ragazzina inquieta e scorbutica che passava molto tempo da sola, a dipingere, costruire oggetti e giocare con gli animali", racconterà la stessa Polly Jean. Ed è la cultura hippy dei genitori, membri del movimento "Flower Power", ad avvicinarla alla musica. Comincia suonando il sassofono in gruppi sperimentali come Bologna e Automatic Dlamini, nel quale incontrerà John Parish, poi suo grande partner artistico. Infine sceglie la chitarra e nel 1991 forma un trio con il bassista Steve Vaughan e il batterista Robert Ellis.
Nel 1992 Harvey pubblica il suo primo album solista, Dry, diviso tra scabrose ballate stile "riot-grrrrl" e confessioni intimiste. La protagonista delle sue canzoni è una ragazza disinibita e sessuomane al limite della ninfomania. Il trucco è quello di colpire l'ascoltatore fin nelle viscere, subissandolo di profferte oscene e di sferragliate di chitarra di urla e di lusinghe, di violenza e di estasi stordendolo con un cocktail sonoro tanto ruvido e depravato quanto, in definitiva, studiato.
Nella traccia iniziale, "Oh My Lover", allora, la provocazione è apertamente "bisex": Polly Jean, piuttosto che rinunciare al suo amante, gli propone di amare lei e la sua rivale allo stesso tempo (e, dietro pose finto-femministe mira quindi apertamente ad accattivarsi il pubblico maschile...). Nel tour de force di "Sheela-Na-Gig", la ferocia dei suoni fa da cornice al ritratto irridente della dea della feritilità della cultura celtica, nella conclusiva "Water" è una sensualità dolente a farsi strada. Supportata dal bassista Stephen Vaughan e dal batterista Robert Ellis, Harvey si propone nei panni di una chanteuse torbida e rabbiosa che sfoga nei suoi soliloqui sessuali tutte le sue insicurezze. Il disco figurerà nella lista degli "imperdibili" per diverse testate specializzate.

Il secondo album, Rid Of Me, prodotto da Steve Albini, cambia rotta spingendosi su sentieri hard-rock e grunge. L'esito non è sempre pienamente convincente, specie quando l'ingenuo fervore di Dry (il cui ritornello "Mi lasci asciutta" è chiaramente da intendersi in termini sessuali) si disperde nell'eccesso di foga degli arrangiamenti. Emerge quantomeno lo humour di Harvey, capace di slogan sardonici, alcuni autenticamente provocatori ("Rub 'Til It Bleeds"), altri francamente improbabili ("Douse hair with gasoline"). Non è granchè d'aiuto anche il canto di Harvey, che si sgola e mugola come un'ossessa tra lamenti, sussusurri e ululati distorti, restando però anni luce lontana dall'epos "mistico" della sua musa Patti Smith. E anche la cover della dylaniana "Highway 61 Revisited" - i cui risvolti "biblici" su amore e orrore sembrano quasi preludere agli argomenti affrontati da Harvey nel suo terzo disco - si rivela un buco nell'acqua. Ma quella di "Rid Of Me" è una rabbia capace di colpire dritto al cuore. E l'inno della title track mostra finalmente una cantautrice matura capace di scandagliare gli abissi della disperazione con la grinta di una blues-girl di razza. Poco dopo la pubblicazione di Rid Of Me esce una sorta di seconda versione de-albinizzata dell'album, 4-Track Demos, che include alcune tracce inedite.

La definitiva consacrazione per la cantautrice del Dorset arriva nel 1995 con To Bring You My Love, prodotto da Harvey, Flood e John Parish, in cui PJ, oltre alla chitarra, suona vibrafono, percussioni e tutte le tastiere. È un grande successo, trascinato dalla sinistra cantilena di "Down By The Water", destinata a diventare la sua canzone più famosa. L'impronta di Nick Cave è profonda nella sceneggiata blues-rock acustica di "C' Mon Billy" e nel delirio psicotico di "Meet Ze Monsta". Tutto l'album è una sorta di sabba, un rituale morboso in cui Polly si abbandona senza ritegno ai suoi demoni sessuali per poi esorcizzarli. Nel frattempo la sua voce si è affinata, riesce a viaggiare su due o tre timbri diversi, a essere insieme grezza e morbida. "Ho cominciato a prendere lezioni di canto nel 1991 - ha spiegato - e la mia insegnante del Royal College di Londra ha provato a impostare la mia voce in modo classico senza preoccuparsi del mio mestiere di rocker. Ho imparato molto cantando pezzi classici, mi ha aperto la mente".

PJ Harvey insomma non si ferma più, spinta dai suoi sogni ("sono così intensi che non riesco a distinguerli dalla realtà") e da un'attrazione fatale per tutto ciò che è travagliato e conturbante, compresi "gli uomini con grandi problemi". Le metamorfosi e le sceneggiate alla David Bowie diventano più rare. Ma nei suoi concerti continua a brillare un istrionico talento per la danza e la mimica. Una fama crescente l'accompagna, trasformandola nell'icona di una generazione "alternative" che si nutre di fumetti pulp e di decadenza metropolitana (post-)grunge. Un successo consacrato nel 1999 con Is This Desire?, classico "album della maturità" in bilico tra ballate noir, rock e techno, come il trascinante singolo "A Perfect Day Elise", che le vale anche un posticino nel palcoscenico mainstream di Mtv.
Ma a dare nerbo al disco sono anche tracce come "The Sky Lit Up", "The River" (dedicata, così come la b-side "Memphis" all'amico scomparso Jeff Buckley) e la stessa dolente title track, biascicata in un registro tremolante carico d'intensità. Affascinata da certi risvolti più "grezzi" e cupi della techno, Harvey accentua il ruolo dei synth, rendendoli finanche funerei, come nella ballata di "The Garden", che potrebbe tranquillamente essere considerata un pezzo "dark".
Is This Desire? segna il vertice del lirismo cupo della cantautrice inglese e la tappa più avanzata della sua maturazione musicale. Smussate le asperità e affinata la verbosità degli esordi, Polly Jean si presenta nei panni di una cantautrice finalmente poliedrica e completa.

Suona come una conferma, seppur parziale, anche il successivo e discusso (la critica lo acclama, molti fan rimangono dubbiosi) Stories From The City, Stories From The Sea, dodici canzoni che affrontano il tema del contrasto tra la frenetica New York e il placido Dorset e che riportano PJ in una dimensione più solare, da songwriter "classica". "Il titolo si riferisce a posti fisici, ma anche mentali, nella mia testa - racconta -. Nel 1999 sono stata sei mesi a New York. Non ero familiare con il posto e mi sono scontrata con una realtà nuova, che ha innescato un processo di apprendimento. È uno dei centri del mondo, un punto d'incontro tra gente, culture, edifici, opere d'arte... C'è una massa di energia che si trasforma artisticamente in sogno. È molto diversa da Londra. New York è molto più terrena, la gente si lascia coinvolgere di più. Londra è più riservata e distaccata". Ne è nato un disco molto più semplice e diretto dei precedenti. Un disco fatto di canzoni sobrie, di ballate e di storie, come "This Mess We're In" (in duetto con Thom Yorke) e "Good Fortune", tanto vibrante da sembrare quasi cantata da Patti Smith in persona.


"Sono canzoni autonome - spiega - piccoli film con un inizio e una fine. Volevo tornare alle radici del songwriting, creando canzoni che fossero in grado di camminare da sole".
Quello che emerge chiaramente in questo disco è che Polly Jean è innamorata e forse per la prima volta si tratta di un amore vissuto in maniera positiva che le fa gettare la sua sfortuna dalla cima di un grattacielo e la fa ballare in tondo ("Good Fortune"), che le fa rincorrere il suo amante, rigorosamente nudo, per tutta la casa ("This Is Love"), che le fa costruire un nido e continuare a cantare ("A Place Called Home").
Ma New York non porta solo un'elettrizzante leggerezza - ne è la prova l'iniziale "Big Exit", ispirata dall'ossessione degli americani per le armi da fuoco. "Rappresenta l'altra faccia della vita della città, che non è solo creatività. Era incredibile sentire le notizie di sparatorie e morti ogni giorno. Nelle prime settimane in cui ero a New York, c'era un folle che spingeva la gente sotto i treni della metropolitana. Ha ucciso sei persone in due settimane, era spaventoso. Poi sono tornata nella campagna inglese, e quella canzone è diventata un modo per confrontarsi con la paura, come buona parte dell'album".
E in tutto questo non poteva comunque non emergere il lato oscuro di Polly Jean. L'album si chiude con "We Float", uno dei picchi nel disco, brano cupo ed oppressivo che spiega quanto "tenere il sorriso che tiene una modella" non sia abbastanza per mascherare la totale mancanza di comunicazione all’interno di una coppia in crisi.

Finito il tempo delle canzoni-shock, frenata la libido irruenta degli esordi, è giunto il tempo della riflessione per questa esile riot-girl di campagna, cresciuta tra vacche, galline e riunioni hippy intorno al fuoco. Oggi vive in un piccolo centro sulla costa inglese, circondata da verdi colline. Frequenta solo un ristretto gruppo di amici. Dice di Londra che è troppo "frantic", frenetica.
Nella vita di questa esile chanteuse dalla pelle bianchissima e dai capelli corvini, tuttavia, non esiste solo il rock. È appassionata d'arte ("a Londra - dice - passo quasi tutto il tempo nelle gallerie") e si cimenta con la scultura: "È il mio hobby fin dai tempi dell'università. Vado a raccogliere materiali sulla spiaggia e poi li utilizzo per costruire qualcosa; è solo un gioco, niente di concreto". L'amore per l'arte figurativa lascia tracce anche nelle sue canzoni: "Il mio metodo di scrittura è fortemente influenzato dalle immagini. Mi immedesimo in un ruolo o in una situazione, come in un film, e poi li metto in musica. Certe volte mi ispiro anche alle foto che scatto". Il suo debito con il cinema PJ Harvey l'ha già saldato con una breve apparizione nel corto di Sarah Miles "A Bunny's Tale", e con l'interpretazione (a dir poco deludente) di Maria Maddalena nel film "The Book Of Life", di Hal Hartley, regista che aveva già utilizzato alcuni suo brani nel film "Amateur" e che dirigerà il videoclip per "Crawl Home" delle Desert Sessions in cui PJ è ospite. Nella pellicola, versione moderna della storia di Cristo, Maddalena è la compagna e la guardia del corpo di Gesù. "È stata un'esperienza straordinaria - racconta - e mi ha aiutato a trovare nuovi stimoli per le canzoni; dopo le riprese avevo sempre qualcosa da scrivere e da trasformare in musica. Ora mi piacerebbe comporre una colonna sonora per un film". Fino a qualche anno fa, sarebbe stato un film porno; ora potrebbe essere anche un noir di David Lynch.

Nel frattempo, oltre alla collaborazione con Nick Cave, ha lavorato con Tricky (nel brano "Broken Homes" contenuta nell'album "Angel With Dirty Faces" e nel quale Tricky omaggia la cantautrice utilizzando alcuni versi di "Oh My Lover" nel brano "Anti Histamine"), Giant Sand (nell'album "Cover Magazine") Pascal Comelade, Marianne Faithfull (cinque delle dieci canzoni contenute nell'album "Before The Poison" portano la firma di PJ Harvey) e con John Parish per il progetto sperimentaleDance Hall at Louse Point (1996). Quest'ultimo rivela Harvey nei panni della blues-girl di razza ("Rope Bridge Crossing", la cover di "Is That All There Is?"), di vestale lugubre alla Diamanda Galas("Taut"), ma anche di feroce rockeuse ("City Of No Sun", "Urn With Dead Flowers") mentre l'acustica "That Was My Veil", primo singolo estratto, e la struggente "Civil War Correspondent" confermano principalmente che PJ ha un'anima.

Siamo nel 2004 quando PJ Harvey torna all'antico con Uh Huh Her, un disco di crudo folk-blues che rimanda ai suoni minimali degli esordi. Polly Jean fa tutto da sola - composizione, produzione, registrazione, missaggio - e suona tutti gli strumenti, con il solo aiuto di Head come assistente al mixer e di Rob Ellis per l'esecuzione delle parti di batteria e percussioni. Ne scaturisce una raccolta di confessioni in lo-fi, attraversata da una vena ironica che si manifesta più in un livore languido (le sommesse rimostranze di "Shame", le minacce sussurrate in "The Pocket Knife") che nelle scenate a luci rosse di un tempo ("Take the cap/ Off your pen/ Wet the envelope/ Lick and lick it" di "The Letter" che non lascia molto spazio alle interpretazioni). Harvey è maturata come musicista-strumentista; la chitarra non è più l'unica arma a sua disposizione: "It's You", ad esempio, sfoggia un bel giro di pianoforte, "Shame" un delicato sottofondo d'organo, "The Slow Drug" pulsazioni trip-hop di synth nel solco di "Is This Desire?", mentre "You Come Through" evoca persino scenari esotici, con i suoi tribalismi africani di xilofono e tastiere. Ma il disco segue sempre la solita strada maestra: un alternarsi di slanci viscerali e ballate dolenti, all'interno delle dodici battute del blues. Ed è una blues-girl di razza quella che intona l'iniziale "The Life And Death Of Mr. Badmouth", propulsa da un riff ossessivo di chitarra. La rockeuse che fa la voce grossa c'è ancora, ed è la protagonista di due degli episodi migliori della raccolta: l'hardcore smargiasso di "Who The Fuck?", lacerato dal canto distorto di Polly Jean e da tre-quattro riff al fulmicotone, e il vigoroso singolo "The Letter", quello che con "Cat On the Wall" sembra più legato all'esperienza "stoner" delle "Desert Sessions" di Josh Homme, alle quali Harvey ha recentemente partecipato. Più spesso, però, Polly Jean preferisce scivolare su un registro dimesso, imbracciando la sua chitarra acustica ("The Desperate Kingdom of Love", lieve e austera al contempo, e "The Pocket Knife", trait d'union con il folk-rock di Stories From The City, Stories From The Sea), oppure tratteggiando scarne ballate come "The End" (dedicata all'amico attore e musicista Vincent Gallo), "The Darker Days Of Me & Him", mesta elegia sul dopo-separazione, e l'assaggio di "No Child Of Mine", brano scritto appositamente per Marianne Faithfull poi incluso in "Before The Poison"...). Una sequenza non priva d'interesse, ma forse troppo lunga per l'armamentario melodico di cui dispone la dark lady del Dorset. I testi sono, al solito, impregnati di un lirismo noir alla Cave, sublimato nella minacciosa "The Pocket Knife". Uh Huh Her è un'istantanea realista dell'attuale PJ: niente più trucchi ma solo la riproposizione di un songwriting un po' autoreferenziale che forse ha il solo torto di aver creato assuefazione nell'ascoltatore.

Intanto si capisce chiaramente che Polly Jean continua la sua salutare relazione sentimentale ma emerge anche un grande errore da parte della cantautrice: quello di essere tanto innamorata da dipendere totalmente dal suo uomo. Errore che si rivelerà fatale con la fine della relazione: White Chalk (il titolo si riferisce ad una suggestiva zona del Dorset) uscito nel settembre del 2007 è un album di completa solitudine, in cui Polly Jean è ormai inerme. Un disco intimista, composto al pianoforte, dove le atmosfere sono chiare sin dalla copertina che vede una Polly Jean in versione "spiritica" con foto che sembrano più santini che forma promozionale. Il disco di una donna sola che si mette a nudo, si piange addosso, senza per questo essere inutilmente drammatica o lagnosa.
Il gruppo c'è, ma si sente poco: ci si accorge appena del clavicembalo, delle tastiere, dell'arpa, di interventi elettronici, e la loro presenza rischia di passare inosservata perché tutto gira intorno al tormento di Polly Jean, mai così nuda in nessuno dei suoi dischi. Un disco di solitudine assoluta: nell'introduttiva ed esaustiva "The Devil" ("As soon as I'm left alone - The Devil wanders into my soul"), nella criptica "The Piano" ("Oh God I miss you"), in "To Talk to You" (lettera aperta alla nonna scomparsa durante le lavorazioni di "Uh Huh Her") e in "Before Departure" (la lettera d'addio di un suicida). Menzione speciale per "When Under Ether", primo singolo estratto, meraviglioso nella sua melodia.
White Chalk è un disco tanto scarno da essere quasi perfetto, manca solo un po' di quella melodia che aveva impreziosito tanto Is This Desire?.

Nel 2006 erano usciti anche Please Leave Quietly e The John Peel Sessions. Il primo è un Dvd pubblicato controvoglia dopo aver ceduto alle pressioni di fan ed etichetta discografica. Non si tratta della registrazione di un unico concerto, ma di un ensemble per far capire allo spettatore quanto sia ripetitiva la vita in tour. Deludenti anche le Peel Sessions che, a causa del noto perfezionismo di PJ, non sono complete e forse presentano addirittura voci "ritoccate".

Nel 2009 la coppia inossidabile PJ Harvey-John Parish, ormai in odor di nozze d'argento, torna all'opera nell'ideale seguito di Dance Hall At Louse Point, non a caso intitolato A Woman A Man Walked By (anche se, per dirla tutta, si tratterebbe d'un immaginario menage a trois completato da Flood, già con loro tredici anni fa). Un album intenso, diretto, salace.
Lo si capisce già dall'opener e singolo "Black Hearted Love", tiro indie anni 90, dimensioneanthemica, quasi Fm. Lo conferma, di filata, "Sixteen, Fifteen, Fourteen", duetto per banjo e chitarra acustica, folk malato e spasmodico, e PJ che risale fino alle più scatenate performance vocali della sua adolescenza.


E se l'autoharp di "Leaving California" e "The Soldiers" rimanda ad atmosfere neo-vittoriane, nell'esplosiva title track Parish ricarica le batterie del suo fregolismo vocale (recitato, gutturale, falsetto, screaming) in una sorta di abbacinante inno post-femminista alla mascolinizzazione che sciama fino alla chiusa electro-percussiva da kabuki psichedelico (denominata "The Crow Knows Where All The Little Children Goes") e sugli stessi toni apocalittici si eleva il paleo-grunge tribale per farfisa e chitarra di "Pigs Will Not". "The Chair" condensa in due minuti e mezzo bassi dub, ritmiche kraut, ripartenze chitarristiche e ascensioni chiesastiche; "April" e "Passionless, Pointless" fondono elettronica downtempo e dream-folk con PJ che mesmerizza la scena come una soprano strangolata nell'abbraccio d'un fantasma dell'opera.

Ed è sempre John Parish, assieme all'altrettanto fido Flood e a Mick Harvey, a co-produrre (e a suonare) quello che a tutti gli effetti può essere considerato il successore di White Chalk.
Let England Shake viene registrato addirittura in una chiesa ma non ricalca le atmosfere di quell'album così scarno e intimista; quell'eterea creatura che bisbigliava, chiusa nella sua solitudine, di diavoli, spiriti e suicidi e che dichiarava il suo amore al natio Dorset, qui termina il suo percorso catartico e ritorna a dialogare col prossimo, sostenuta da un'inaspettata ventata di estroversione.
Liberata dai suoi demoni o impazzita per il troppo struggimento, la voce di PJ Harvey acquista la spensieratezza dell'infanzia. Canta di un argomento universale come la brutalità delle guerre, ma con lo sguardo tenero e al tempo stesso distaccato di una bambina.
Non sono l'angoscia né la rabbia a far da padrone (eccezion fatta per il turbinoso crescendo di "All And Everyone" e per la nervosa "Bitter Branches", uno dei pochi brani, assieme a "In The Dark Places", che forse potrebbe accontentare i vecchi fan). Le sostenute ritmiche acustiche donano infatti un sapore folk e, a tratti, un'atmosfera paradossalmente scanzonata o addirittura buffa, come nella fanfara di "The Words That Maketh Murder".
È un album che sa di antico, quasi di rurale, che culmina appunto con una cadenzata ballata dai toni tradizionali come "The Colour Of The Heart" (in duetto con Parish); ascoltarlo è come sfogliare un vecchio album di fotografie in bianco e nero ingiallite dal tempo, provando a immaginarne i colori, suggeriti qua e là dal jingle-jangle dell'autoharp, che puntella diversi pezzi, dalle sparute incursioni di un sax baritonale, dal campionamento di una tromba che suona l'adunata nella trascinante "The Glorious Land" o ancora dal canto mediorientale che si sovrappone a quello sferzante della Harvey in "England".

Indossato un abito sonoro ormai fuori dal tempo, Pj Harvey assume ormai il fascino di una più classica e matura cantastorie, che per farsi ascoltare non ha più bisogno di gridare, ma lascia parlare le sue canzoni, sorrette da un'accessibilità melodica che mai svilisce la ricercatezza d'intenti.


Contributi di Simone Coacci ("A Woman A Man Walked By") e Stefano Fiori ("Let England Shake")

Fonte: www.ondarock.it

Curiosità.

PJ Harvey in concerto, 2 settembre 2004

Polly Jean "PJ" Harvey (Yeovil, 9 ottobre 1969) è una cantautrice e musicista britannica.

Bio.

Ha registrato dischi da solista sotto il nome di P.J. Harvey, ma ha cominciato la sua carriera come parte di un trio (con ilbatterista Rob Ellis e il bassista Steve Vaughan) anch'esso chiamato PJ Harvey.




Origini.


Figlia di un artigiano e di una scultrice, la Harvey è cresciuta in una piccola fattoria nel Dorset. In giovane età i genitori l'hanno introdotta al blues, jazz e all'art-rock music, che più tardi influenzeranno il suo stile musicale: «Sono cresciuta ascoltando John Lee Hooker, Howlin' Wolf, Robert Johnson, e molto di Jimi Hendrix e Captain Beefheart. Sono stata esposta a tutti questi musicisti molto compassionevoli in tenera età... e questo è sempre rimasto in me e sembra essere tornato in superficie a un'età molto più adulta. Penso che il modo in cui siamo quando cresciamo sia il risultato di quello che abbiamo conosciuto da piccoli», ha dichiarato a Rolling Stone nel 1995. Ha passato anche una fase di ribellione durante l'adolescenza, in cui ha ascoltato artisti più pop come U2, The Police, Soft Cell, Duran Duran e Spandau Ballet, e più tardi nella sua adolescenza è diventata una grande fan delle band indie statunitensi Pixies, Televisione Slint, ma non, come molto critici hanno sospettato, di Patti Smith (un frequente paragone che viene fatto e che la Harvey liquida come "giornalismo pigro"). Più recentemente la Harvey ha detto di essere stata ispirata dalla musica folk russa, dal compositore italiano Ennio Morricone e da compositori classici come Arvo Pärt, Samuel Barber e Henryk Górecki.
Ha studiato sassofono per circa otto anni, e all'inizio della sua carriera ha fornito sax, chitarra e cori a Somerset bands Bologna, the Polekats, the Stoned Weaklings e Automatic Dlamini. All'età di 17 anni ha cominciato a scrivere le sue canzoni e nel gennaio 1991 ha formato l'originale trio PJ Harvey (lei stessa alla chitarra e voce, l'ex-Automatic Dlamini Rob Ellis alla batteria e Ian Olliver al basso, rapidamente sostituito da Steve Vaughan). Il debutto nella pista di skittle dello Sherborne's Antelope Hotel fu così disastroso che il proprietario dovette pregare la band di smettere di suonare perché quasi tutti i clienti avevano lasciato il posto. A questo punto la Harvey aveva anche completato un corso di arte allo Yeovil Art College e stava studiando scultura al Central Saint Martins College of Art & Design di Londra, ancora indecisa sulla sua futura carriera.


Altri lavori.

Oltre alla meglio conosciuta attività musicale, Polly Jean ha anche recitato nel film del 1998 The Book of Life di Hal Hartley, una moderna storia basata sul personaggio di Maria Maddalena, e in un cameo come coniglietta-cantante nel cortometraggio A Bunny Girl's Tale di Sarah Miles. Inoltre è scultrice, e alcuni pezzi sono esibiti alla Lamont Gallery e al Bridport Arts Centre, e ha pubblicato poesie.

Discografia.

1992 - Dry
1993 - Rid of Me
1993 - 4-Track Demos (antologia con inediti)
1995 - To Bring You My Love
1996 - Dance Hall at Louse Point (in collaborazione con John Parish)
1998 - Is This Desire
2000 - Stories from the City, Stories from the Sea
2004 - Uh Huh Her
2006 - The Peel Sessions 1991-2004 (antologia di versioni inedite)
2007 - White Chalk
2009 - A Woman a Man Walked By (in collaborazione con John Parish)
2011 - Let England Shake

Fonte Wikipedia

''Let England Share''
 -Album completo-


Let England Shake è un album studio di Polly Jean Harvey conosciuta come PJ Harvey pubblicato nel 2011.
È il suo ottavo disco, senza considerare Dance Hall at Louse Point (1996) e A Woman a Man Walked By (2009) collaborazioni con John Parrish, che comunque partecipa come musicista e produttore ma non viene ufficialmente riconosciuto come co-autore dell'album.

Il disco.

La nascita artistica del disco ha richiesto tre anni circa ma è stato registrato in soli due mesi, tra aprile e maggio del 2010, in una chiesa del XIX secolo nella contea del Dorset in Inghilterra. Quasi un anno dopo, il 14 febbraio 2011 è stato distribuito dalle etichette indipendenti Island Records in Europa, Canada e tutte le altre nazioni e dalla Vagrant Records negli Stati Uniti.
Le tematica principale affrontata nei testi delle canzoni è la guerra, citando in particolare la battaglia di Gallipoli (1915-1916) e i Conflitti arabo-israeliani.

Tracce.

Testi e musiche di PJ Harvey.

England – 3:11
Bitter Branches – 2:29

Durata totale: 40:08

Formazione.
  • PJ Harvey: voce, cori, chitarre (tracce 2,3,5,7,8,11,12), sassofno (1,2,4,5,8), autoharp (1,4,5,12), violino (7), zither (6)
  • John Parish: cori (in tutte le tracce eccetto 1,7,10), batteria e percussioni (in tutte le tracce eccetto la 10), chitarre (2,3,4,6,9,10,12), trombone (1,2,4,5,8), mellotron (1,7,12), piano Rhodes (1,8,11), , xilofono (1,9).
  • Mick Harvey – pianoforte (1,6,10), armonica a bocca (1,4,5,8,9), batteria e percussioni (2,4,6,11), organo (2,5,7,8), cori (2–6,8–12), piano Rhodes (3,6), bass (4), chitarra (8,9,11), xilofono (9)
  • Jean-Marc Butty: cori (3,5,6,8,12), batteria e percussioni (3,6,8,10)
  • Sammy Hurden: cori (8,12)
  • Greta Berlin: cori (8,12)
  • Lucy Roberts: cori (8,12)

Scheda tecnica.

Tipo album: studio.
Pubblicazione: 14 febbraio 2011
Durata: 40 minuti e 8 secondi
Dischi:1
Tracce: 12

Genere: Alternative rock, Folk rock, Indie rock.

Etichetta: Island Records, Vagrant Records
Produttore: PJ Harvey, John Parish, Mick Harvey, Flood
Registrazione: nel Dorset (UK) tra aprile e maggio del 2010
Formati: CD, LP, Download digitale
Cronologia: Album precedente 'A Woman a Man Walked By' (2009);
                      Album successivo ___

Fonte Wikipedia.

martedì 27 agosto 2013

Giacomo Costa; 'Visioni apocrife'.

Le “Visioni apocrife”
 di Giacomo Costa inaugurano gli spazi di smART. 
Nuovo spazio romano per l’arte contemporanea, pensato in forma di polo culturale indipendente. 
Tra didattica, esposizioni, incontri

di Helga Marsala


Un nuovo spazio culturale a Roma, tutto dedicato alla diffusione e valorizzazione delle arti visive e della scena contemporanea, tra artisti emergenti e nomi di rilievo internazionale. Si chiama smART e nasce dall’incontro di tre donne, tutte appassionate d’arte, con background e percorsi differenti, ritrovatesi per questa nuova sfida: Margherita Marzotto, Presidente dell’associazione culturale, Stephanie Fazio, direttore dello spazio espositivo, e Giorgia Rissone, responsabile per la didattica.
L’idea è quella di creare un polo per l’arte contemporanea che sia realmente capace di aggregare ed avvicinare il pubblico, mettendo al centro al figura dell’artista e le opere: l’esigenza, sempre più diffusa, di abbattere le barriere e accorciare le distanze tipiche di grandi gallerie e di certi spazi istituzionali, orienta anche questa nuova realtà capitolina. Un’esigenza che – guardando al clamoroso exploit del non profit – passa per l’attuazione di pratiche e approcci alternativi. Tre le dimensioni progettuali: una espositiva, una didattica e una conoscitiva e d’approfondimento. Dunque, in sostanza, smART significa mostre, laboratori, attività di formazione, incontri, dibattiti, confronti.
Si parte con un artista italiano, Giacomo Costa, e la sua Visioni apocrife, a cura diFrancesca Valente. Selezionati dalla sua produzione una ventina di paesaggi urbani, elaborazioni di straordinario impatto visivo, che in questi anni hanno portato fortuna e una forte riconoscibilità al lavoro di Costa. Sono spazi enigmatici, inquietanti, eppure incredibilmente realistici, visioni esacerbate in cui la forza plastica, derivata da un utilizzo della tecnologia portato agli estremi, convive con una sensazione di spaesamento, di surrealtà, di vertigine. Fotografia, cinema, architettura, science fiction e richiami alla grande arte italiana del ‘700 e dell’800, si mescolano in queste romantiche ambientazioni, virate verso un uso massiccio di effetti speciali grafici: dalla pittura al grande schermo, passando per la ricerca fotografica e quella digitale, il lavoro di Giacomo Costa saccheggia differenti immaginari, traducendosi in un’operazione scenica dichiaratamente estetizzante e seduttiva.
Lavori in corso, al momento, in attesa dell’inaugurazione, da segnarsi in agenda: 15 ottobre 2013, in Piazza Crati 6/7, zona interessante e non convenzionale per una galleria, in area centro-Nord, quartiere Trieste. Ci sarà poi tempo fino al 29 novembre per godersi la prima mostre targata smART.

Un'intervista.





Giacomo Costa.


Nasce a Firenze nell’ottobre del 1970, studia violino fino ai quattordici anni e abbandona gli studi al liceo classico nel 1986 per concluderli da privatista nel 1989. Dopo aver soddisfatto la sua passione per la montagna, trasferendosi a Courmaieur, inizia i suoi studi fotografici nel 1993. Da prima con il suo autoritratto e poi con l’abbinamento di paesaggio montano e urbano in studi che fanno emergere in lui la necessità di un nuovo intervento nelle sue opere “simile a quello del pittore”.
Dopo l’incontro con il fotografo spagnolo Richard Nieto impara ad utilizzare il punto luce come l’intervento di un vero e proprio pennello non solo sul bianco e nero, come lo spagnolo, ma anche sul colore. Con questa tecnica realizza alcuni studi sul corpo umano che sanciscono il vero e proprio inizio della sua ricerca. Nel 1994 incontra il critico Maria Luisa Frisa che lo presenta nella mostra Equinozio d’Autunno al Castellodi Rivara di Franz Paludetto. L’interesse per la ricerca progressivamente lo allontana dagli impegni professionali iniziando così a muoversi nel mondo dell’arte. Nel 1995 inizia una collaborazione con il gallerista Marsilio Margiacchi e una ricerca sulle polaroid e la loro elaborazione, con le quali parteciperà alla mostra Al Muro!!! Presso la stazione Leopolda a Firenze e all’edizione 1996 di Arte Fiera a Bologna e a una mostra al Trevi Flash Art Museum. Con la serie di interventi sui paesaggi con l’intrusione di enormi monoliti di travertino presentati per la prima volta a Bologna si pone all’attenzione del pubblico e della critica. Nel 1999 ottiene la sua prima personale a Londra seguita dalla partecipazione alla Quadriennale di Roma ed alla Biennale Fotografica di Torino. Inizia ad esporre sia in Italia che in America, New York, Chicago e New Orleans. Nel 2005 vience il concorso pagine bianche d’autore per il volume della toscana. Nel 2006 incontra Elena Ochoa Foster che pubblica i suoi lavori sulla rivista CPhoto Magazine e successivamente lo invita alla X Biennale di Venezia dell'architettura. Sempre nel 2006 Il Centre Pompidou espone un suo lavoro (Agglomerato n.9, 1997), che è entrato a far parte della collezione permanente del museo, nella mostra Les Peintres de la Vie Moderne. Nel 2009 esce pubblicato da Damiani il volume "The Chronicles of Time" che raccoglie tutti i suoi lavori dal 1996 al 2008. Il volume è introdotto da un testo dell'archistar Norman Foster e del critico italiano Luca Beatrice. Nel 2009 viene invitato alla 53° Biennale di Venezia "Fare Mondi, Making Wolds".

Fonte www.artistocratic.com



Arte.


Attratto fin dagli inizi dalla possibilità di intervenire sulla realtà fotografata, trova la sua massima realizzazione nella scoperta delle possibilità di manipolazione che l'uso delle tecnologie digitali gli offrono. Nel 1996 esordisce con la serie degli Agglomerati, semplici montaggi di immagini ottenute con Photoshop, ma è a partire dal 1999 che abbandona la fotografia tradizionale, seppur elaborata, per dedicarsi esclusivamente all'uso delle tecnologie 3D. Con questi nuovi strumenti, gli stessi usati per gli effetti speciali del cinema, crea immagini e scenari fotorealistici ma inesistenti, ponendo la sua ricerca a metà tra la pittura e la fotografia. La sua riflessione parte da ciò che comunemente angoscia il mondo contemporaneo, i disastri naturali, le speculazioni, l'inquinamento, il devastante impatto ambientale dello sviluppo insostenibile, lo sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali traducendo queste ed altre tematiche in immagini. Le immagini di Giacomo Costa, come dice Norman Foster nell'introduzione al libro The Chronicles of Time, “…sono come le rovine di una civiltà perduta, che potrebbe essere la nostra. Grazie a questa potente visione, ci ricordano soprattutto la fragilità del nostro mondo artefatto e i presupposti civici che lo hanno sostenuto fino ad oggi.”


Collaborazioni.


Nel maggio del 2010 collabora con Irene Grandi nella sua tournée teatrale proiettando su maxi-schermi una selezione di opere rielaborate.]
Ad ottobre del 2010 collabora con l'attore e regista Luca De Filippo progettando il sipario ed i fondali della commedia del padre, Eduardo De Filippo, 'Le bugie con le gambe lunghe'.
A giugno del 2011 viene invitato a creare l'immagine simbolo de 'l'estate fiorentina 2011'.
Nel 2011 le sue opere sono state pubblicate su STUDIO Architecture and Urbanism magazine #01 [from] CRISIS [to] di Romolo Calabrese
Nel 2012 esegue la scenografia de Il gioco dell'amore e del caso di Marivaux per la regia di Piero Maccarinelli e con i costumi del premio Oscar Gabriella Pescucci. Il cast è composto da Antonia Liskova, Fabrizia Sacchi, Paolo Briguglia, Francesco Montanari, Emanuele Salce e Sandro Mabellini e lo spettacolo debutta in prima nazionale a Firenze rappresentando la prima produzione della Fondazione Teatro della Pergola.

Musei.

Elenco dei musei che posseggono opere dell'artista:
  • CACNO (Contemporary Arts Center of New Orleans), Stati Uniti
  • Contemporary Arts Museum, Houston, Stati Uniti
  • Centre Pompidou di Parigi, Francia
  • Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci, Prato

Bibliografia.

  • Wolken, Hatje Cantz Verlag, 2013 (ISBN 9783950301847)
  • Padiglione Italia, L.Beatrice e B.Buscaroli, Silvana Editoriale, 2009 (ISBN 9788836613885)
  • Architecture Now! 7, Philip Jodidio, Taschen, 2008 (ISBN 9783836517355)
  • The Chronicles of Time, testi di Norman Foster e Luca Beatrice, Damiani Editore, 2008 (ISBN 8862080794)
  • CPhoto Magazine, N.5, London, Ivory Press, 2007
  • CPhoto Magazine, N.3, London, Ivory Press, 2007
  • Sound&Vision, Luca Beatrice, Damiani Editore, 2006 (ISBN 8889431555)
  • XIV Quadriennale, Roma-Torino (catalogo), 2004 (ISBN 8880165704)
  • Enciclopedia dell'arte Zanichelli, Zanichelli, Milano, 2004, (ISBN 9788808223906)
  • L'arte del novecento, Giunti, 2003, (ISBN 9788809034327)
  • 2A+P landscape, anno 3 n.2, Cooper & Castelvecchi, 2001, (ISBN 8873940021).
  • XY dimensioni del disegno, anno 14 N.38-39-40. Officina Edizioni, 2000, (ISBN 8887570302)
  • Sui Generis, PAC, Milano (catalogo), Medusa, (ISBN 8888130055)
  • Photography Now, Contemporary Art Center, New Orleans (catalogo)
  • Land(E)Scape, Edizioni Photology, Milano
  • VIII Biennale Internazionale di Fotografia, Torino (catalogo)
  • XIII Quadriennale, Roma (catalogo), (ISBN 8880163205)

Fonte wikipedia.

mercoledì 14 agosto 2013

Arbouretum

 “Song” poggia vorticosamente i piedi sulla terra desolata del presente, una realtà fatta di 'nulla fuorché solitudine', piena di ombre, di gente morta che ci osserva annidata nel buio dei propri ricordi, sfumata di sogni a occhi aperti e di paesaggi evanescenti intravisti dal finestrino in una traversata sonnambulica.

vF


Arbouretum è un gruppo musicale nato nel 2002 per opera di Dave Heumann, chitarrista di Baltimora con precedenti esperienze musicali con Will Oldham e Cass McCombs.



Storia.
Il gruppo esordì nel 2004 con, Long Live the Well-Doer frutto della collaborazione di Heumann con il produttore Rob Girardi ed il batterista David Bergander miscela di alternative country e post rock.
Tre anni più tardi uscì Rites of Uncovering dove sono più marcate le influenze del cantautorato rock di artisti come Neil Young eWill Oldham registrato da una formazione a quattro elementi: Heumann, Walker David Teret alla chitarra, Mitchell Feldstein alla batteria e Corey Allender al basso.
Ne 2008 Daniel Franz subentrò a Feldstein e Steve Strohmeier a Teret, con questa formazione hanno registrato il terzo albumSong of the Pearl. Nel 2010 Strohmeier venne sostituito dal tastierista Matthew Pierce, con cui incisero il quarto album The Gathering, ispirato dal Libro Rosso di Carl Gustav Jung.
Dopo un album, Aureola, diviso con gli Hush Arbors il gruppo ha pubblicato a fine 2012 il quinto album ufficiale Coming out of the Fog.

Stile.
La loro musica rivela influenze folk, rock, psichedelia e blues, sono stati spesso etichettati come gruppo doom folk. Il leader e cantante Heumann ha un timbro di voce che ricorda quella di Richard Thompson.

Album.
  • 2004 - Long Live the Well-Doer (Box Tree)
  • 2007 - Rites of Uncovering (Thrill Jockey)
  • 2009 - Song of the Pearl (Thrill Jockey)
  • 2011 - The Gathering (Thrill Jockey)
  • 2012 - Coming out of the Fog (Thrill Jockey)

Fonte Wikipedia

Io scelgo! vF

martedì 13 agosto 2013

Lazzaretto Estate 2013 - Prima

Cinema, teatro, musica, eventi.

Martedì 13 agosto 2013 ore 21.30 – Canalone Cinema
COME UN TUONO
Un film di Derek Cianfrance
Ingresso intero € 5,00 – ridotto € 4,00



Un film di Derek Cianfrance. 
Con Ryan Gosling, Bradley Cooper, Eva Mendes, Dane DeHaan, Emory Cohen.  
Thriller, durata 140 min. - USA 2012. 

Luke è un pilota di motociclette, impiegato in uno spettacolo ambulante. Dovrebbe partire al seguito del carrozzone per una nuova meta, ma scopre di avere un figlio, Jason, nato da una breve relazione con Romina, una ragazza del posto. Resta, dunque, nella provincia dello stato di New York, per provvedere alla sua nuova famiglia e impedire che suo figlio cresca senza un padre, come accaduto a lui. Le rapine in banche e le fughe in moto sono il metodo più veloce per procurarsi tanti soldi e in fretta, ma "chi corre come un fulmine, si schianta come un tuono", ed è così che la folle corsa di Luke si arresta davanti alla recluta di polizia Avery Cross, anch'egli padre da poco. Quindici anni dopo, Jason e il figlio di Avery stringono amicizia al liceo, ma il passato che li lega riaffiora e la vecchia violenza chiama nuova violenza.  


Mercoledì 14 agosto 2013 ore 22.30 – Lazzabaretto
DOPPIE VITI 
Musicisti itineranti ironici, beffardi, imprevedibili
Ingresso gratuito



Musicisti itineranti ironici, beffardi, imprevedibili. Nostalgici di quei mai vissuti anni Sessanta, ma allo stesso tempo figli delle contaminazioni degli ultimi due decenni. Le Doppie Viti cantano le contraddizioni della società e della vita privata, con un’attitudine irriverente ma sempre ancorata alla realtà, senza cadere nella demenzialità. A Maggio è uscito Come alle Hawaii primo disco delle Doppie Viti, il disco è prodotto da Max Lepore (Jovanotti, Grignani , Silvestri.....).

Venerdì 16 agosto 2013 ore 21.30 – Canalone Cinema
REALITY
Un film di Matteo Garrone
Ingresso intero € 5,00 – ridotto € 4,00



Un film di Matteo Garrone. 
Con Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone, Graziella Marina, Nello Iorio.  
Drammatico, durata 115 min. - Italia 2012. 

Luciano Ciotola vive a Napoli in un palazzo fatiscente con la moglie e i figli avendo come coinquilini numerosi parenti. Gestisce una pescheria mentre con la moglie ha attivato un traffico illegale di prodotti casalinghi automatizzati. Luciano ha una vocazione per l'esibizione spettacolare così il giorno in cui i familiari lo sollecitano a partecipare a un casting de "Il Grande Fratello" non si sottrae. Entra così in una spirale di attese che trasformerà la sua vita.


Sabato 17 agosto 2013 ore 21.30 – Canalone Cinema
LA SPOSA PROMESSA
Un film di Rama Burshtein
Ingresso intero € 5,00 – ridotto € 4,00



Un film di Rama Burshtein. 
Con Hadas Yaron, Yiftach Klein, Irit Sheleg, Chayim Sharir, Razia Israeli.  
Drammatico, durata 90 min. - Israele 2012. 

Shira ha 18 anni, è figlia di un rabbino della comunità ortodossa di Tel Aviv e sorella minore di Esther, che attende un figlio dal marito Yochai. L'interesse di Shira si rivolge per la prima volta verso un coetaneo, che la famiglia le ha proposto come possibile fidanzato, ma la morte di Esther per parto allontana ogni decisione. Solo con il neonato, di cui si occupano con amore Shira e la sua famiglia, Yochay viene invitato a risposarsi presto. La prospettiva che possa andarsene con il nipotino in Belgio, spinge la moglie del rabbino a proporgli di prendere in moglie proprio Shira. Sta alla ragazza accettare o meno questa difficile proposta. 


Domenica 18 agosto 2013 ore 21.30 – Corte Interna
MILLE PAPAVERI ROSSI
Omaggio a De André, in collaborazione con il Centro di Salute Mentale di Ancona
Ingresso posto unico € 5,00



Il gruppo I liberi cantori della Marca presenta una panoramica storica del cantautore De André con una formazione prevalentemente acustica. Il gruppo, costituito nel 2000, propone in versione acustica musica di cantautori italiani, popolare marchigiano, folk italiano e internazionale.

In collaborazione con il Centro di Salute Mentale di Ancona
In caso di maltempo Teatro Sperimentale


Domenica 18 agosto 2013 ore 21.30 – Canalone Cinema
THE MASTER
Un film di Paul Thomas Anderson
Ingresso intero € 5,00 – ridotto € 4,00


 Un film di Paul Thomas Anderson. 
Con Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern, Ambyr Childers. 
Drammatico, durata 137 min. - USA 2012. 

Freddie Quell è un soldato uscito dalla Seconda Guerra Mondiale con il sistema nervoso a pezzi. A poco servono le cure che l'esercito gli offre, se non a rendere esplicita un'ossessione per il sesso. A ciò si aggiunge un forte interesse per l'alcol che si traduce in misture che lui stesso si prepara e che offre agli altri con esiti non sempre positivi. Finché un giorno, in modo del tutto casuale, Freddie incontra Lancaster Dodd. Costui ha inventato un metodo di introspezione che sperimenta sul disturbato Marine, il quale sembra trarne giovamento. Da quel momento ha inizio un sodalizio che li vedrà percorrere insieme un lungo tratto di strada. Anche se il loro viaggio finirà con l'offrire loro esiti assolutamente diversi. 


Programma www.lazzarettoestate.org
Fonte www.ilmascalzone.it