venerdì 20 settembre 2013

Gabriele D'Annunzio e Francesco Paolo Michetti: 'La figlia di Iorio'.

La figlia di Iorio è un’opera drammatica in versi di Gabriele D’Annunzio, una "tragedia rustica d’argomento abruzzese", come la definì lo stesso poeta , in tre atti scritta nell’estate del 1903.
La vicenda è ambientata in un Abruzzo rurale, patriarcale e superstizioso, nel giorno di San Giovanni. La famiglia di Lazaro di Roio sta preparando le nozze del figlio Aligi, pastore, con la giovane Vienda di Giave.
Secondo l’antico rituale le tre sorelle di Aligi, Splendore, Favetta e Ornella, lavorano agli alle vesti e agli arredi per il matrimonio, mentre la madre riceve e accoglie i parenti che giungono con i doni nuziali.
Questa atmosfera di serenità agreste è turbata dall’irrompere di Mila, figlia del mago Iorio che cerca scampo e rifugio per evitare le molestie di un gruppo di mietitori ubriachi. La ragazza ha una cattiva fama: è sospettata di stregoneria, ma Aligi la difende e pone sulla soglia una croce di cera di fronte alla quale i mietitori indietreggiano. Il rito nuziale è ormai profanato e interrotto.
Mila e Aligi si innamorano e finiscono per convivere assieme in una caverna in montagna.
La situazione precipita quando il padre di Aligi, Lazaro cerca di sedurre Mila, ma il giovane interviene a difendere la donna e nasce così una rissa tra padre e figlio che terminerà con la morte del padre. Il parricida viene condannato dalla comunità ad essere chiuso in un sacco con un mastino e buttato nel fiume, ma Mila , per salvarlo, si assume la colpa di tutto, dichiarando di averlo ammaliato con una stregoneria e spinto al delitto. Mila verrà condannata al rogo che ella affronta come sacrificio e purificazione.




LE RAPPRESENTAZIONI
La prima rappresentazione della tragedia avvenne al Teatro Lirico di Milano il 2 marzo 1904 con la compagnia teatrale di Virgilio Talli ed ebbe enorme successo. D’Annunzio in una lettera al pittore Michetti, amico e corealizzatore delle scene e dei costumi descrisse perfettamente le motivazioni e gli intenti dell'opera: rivivere le radici della terra natale, nell'intento di eternizzare le antiche figure pastorali .

 "Tutto è nuovo in questa tragedia e tutto è semplice. Tutto è violento e tutto è pacato nello stesso tempo. L'uomo primitivo, nella natura immutabile, parla il linguaggio delle passioni elementari...
E qualcosa di omerico si diffonde su certe scene di dolore.
Per rappresentare una tale tragedia son necessari attori vergini, pieni di vita raccolta. Perché qui tutto è canto e mimica...
Bisogna assolutamente rifiutare ogni falsità teatrale."

Il 22 giugno del 1904 d'Annunzio tornò a Pescara e, prima di sciogliere la compagnia volle fare una rappresentazione al cospetto della madre. Ma a quei tempi la città non aveva un teatro ; c’era solo il politeama Aternino ma tante sere d’estate il pubblico doveva assistere allo spettacolo con l’ombrello , perché non aveva tetto né pavimento. E così fu scelto il bel Teatro Marrucino di Chieti che era allora nostro capoluogo di provincia. Gabriele D’Annunzio, dopo aver rimontato in battello la Pescara, giunse nel teatro teatino che era gremitissimo . Quella sera tutto l’Abruzzo artistico e intellettuale era presente a quella tragedia con la quale il Vate ha esaltato la santità e il sangue della nostra stirpe. Ogni fine atto il poeta veniva chiamato alla ribalta tra incessanti applausi. Il giorno successivo fu organizzato un banchetto agreste in mezzo al verde della Pineta. Tra i cento invitati non mancavano gli amici di sempre Francesco Paolo Michetti e Filippo De Titta, i sindaci di Pescara e Castellammare, tutti i soci del Circolo Aternino che, negli anni a venire, mitizzarono l'evento di cui erano stati i principali promotori in innumerevoli discorsi e commemorazioni. D'Annunzio, nel lasciare il convito, a chi accennava alla tristezza dell'imminente addio, definendo quella la "festa della poesia e dell'amore", profetizzava: "fra cento anni saremo viventi tra i posteri."
La pineta, magico scenario de “La figlia di iorio”.
Da quel momento la Pineta divenne dannunziana e cominciò a prendere forma specifica. Dal 1911 iniziò ogni mese , prima del tramonto, il teatro all’aperto, dove dare le opere del Vate. Il palcoscenico aveva per scenario i pini e veniva montato a quaranta dal casello stradale e a settanta metri all’interno della pineta. Accorreva allo spettacolo sempre un pubblico eletto; lungo la via erano in doppia fila centinaia di landò e carrozzelle venuti da tutte le vicine spiagge e città d’Abruzzo.
In occasione delle feste di San Cetteo, il 7 agosto 1910 venne inaugurato il Kursaal con un singolare spettacolo che raccolse tanti abruzzesi: due campioni mondiali dell'aviazione, Freye su un biplano e Barrier su un monoplano insieme ad altri piloti, si impegnarono in gare di abilità e, partendo da una pista tra la Provinciale per Francavilla e la spiaggia, raggiungevano la massima altezza per ridiscendere acrobaticamente Passata la festa e ottenuto il successo, si prese a lottizzare il terreno in vista di un quartiere residenziale la cosiddetta “città giardino”, senza dimenticare Gabriele d'Annunzio, in onore del quale si allestì, sempre alla Pineta, un secondo banchetto in cui fu deciso di offrire al poeta più di un ettaro di terra boschiva affinché, come scrive nel suo "Pescara nei secoli" Luigi Lopez, "vi costruisse una sua casa che sarebbe stata arredata a suo gusto, attraverso una sottoscrizione nazionale. Ma il poeta rifiutò l'offerta, facendo sapere che “non gradiva doni che lui bastava a se stesso e che voleva vivere dove a lui piaceva". Il rifiuto non offese i pescaresi che nel 1912 allestirono nella Pineta una storica rappresentazione della Figlia di Iorio. Fu la compagnia Stabile romana diretta dall’attore Ettore Berti che organizzò i famosi spettacoli dannunziani tra il 1912 e i 1913 alla Pineta di Pescara, mettendo in scena: oltre a “ La figlia di Iorio anche “La Città morta” “La Gioconda” e “La fiaccola sotto il moggio”.
Il poeta, incoraggiato da questo grande successo, voleva far costruire in questo suggestivo sito un anfiteatro. Il cognato, su sua commissione, si mise subito all’opera , fece un bel progetto e formò un Comitato di cittadini (allora Pescara aveva 10000 abitanti molto attivi) che doveva iniziare ed inaugurare per l’agosto del 1915 l’Anfiteatro dannunziano. Il sito era quello sognato dal poeta, a poca distanza dallo stabilimento Aurum. Ma nel 1914 venne la guerra franco-tedesca e nel 1915 quella italo-austriaca, così il progetto del poeta rimase in attesa dei posteri.
Dopo il conflitto mondiale l'accesso al nuovo quartiere fu favorito da un tram a cavalli che partiva da via Conte di Ruvo, davanti a Palazzo Oliva, con un numero di corse considerevole. La Pineta, facile da raggiungere, ricominciò a diventare nella cultura pescarese un abituale luogo di ritrovo e trattenimento festivo, per una specie di gita familiare. La città-giardino riprese a vivere e a crescere nelle speranze di tutti. Si ripropose allora una nuova rappresentazione della tragedia “La figlia di Iorio” che venne messa in scena nel 1949 da Elena Zareschi e Salvo Randone di cui molti ricordano ancora la insuperata interpretazione.
La Pineta, definitivamente dannunziana, tornò ad essere la meta comune della gente di Pescara che, intanto aveva assorbito Castellammare e i Colli. Se il Kursaal era stato trasformato nello Stabilimento Aurum per la preparazione di liquori e confetture, c'erano ancora i viali alberati, i sentieri , le rotonde per ballare con orchestrine, il caffé concerto, i campi di bocce e gli spazi per la merenda dei bambini. Il trenino aveva ripreso le sue affollatissime corse; d'estate per i bagnanti giornalieri che scendevano da Penne, da Loreto, da Cappelle, d'inverno per un turismo locale ma assai variegato. In allegra spensieratezza, di mattina, vi si recavano gli studenti filonari, magari a leggere e a provare le sensazioni descritte ne la "Pioggia nel pineto" , le mamme con i bambini, i pensionati a giocare a bocce e a leggere il giornale. Il sabato ci andavano, in fila con il grembiulino bianco gli scolari dell'Istituto Ravasco, con il cestino della merenda che allora era pane e marmellata e una mela.


Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli. I documenti e le immagini sono tratti dall’Archivio di Stato di Pescara, da: Racconti della memoria di una Pescara dannunziana di federico Valeriani, da “La figlia di Iorio, opera pittorica di F.P. Michetti” di Restituto Ciglia , da “Pescara” di Luigi Lopez e da testi di Maria Concetta Nicolai


Fonte abruzzo24ore.tv

'La figlia di Iorio'.
Primo atto (1954)



'La figlia di Iorio'.
Secondo atto (1954)



'La figlia di Iorio'.
Terzo atto (1954)




Commento e critiche

L'autore stesso, nella lettera a Michetti, descrisse perfettamente le motivazioni e gli intenti dell'opera. Rivivere le sue radici della terra natale, nell'intento di eternizzare le figure pastorali antiche, grazie alla scoperta dell'immutata sostanza della natura umana. L'autore ricerca oggetti come utensili, suppellettili che abbiano l'impronta della vita vera, e nel tempo medesimo vuole diffondere sulla realtà dei quadri un velo di sogno antico.
Perciò è proprio un sogno antico che riconduce il poeta alla sua terra d'origine, che nell'opera viene riportata ad uno stadio primitivo ed innocente, caratterizzato da usi e costumi arcaici. È infatti alla natura aspra della sua gente che il poeta salda la tragedia del destino.
È un'opera variegata pervasa dal filo conduttore della musicalità dannunziana. Ecco perché sembra quasi rientrare nella normalità delle cose, la vicinanza della frase ricercata e colta con la filastrocca invece basata su temi popolari; oppure il tono realistico alternato a quello trasognato, indefinito e misterioso.
Lo stesso poeta definirà il suo verso come: "intero, senza spezzamenti, semplice e diritto, entra nell'anima e vi resta".
Le critiche, sia quelle contemporanee alla realizzazione dell'opera sia quelle successive, sono state, generalmente, positive. Scrisse il Paratore

«È l'unica opera del poeta, che pur concedendo il debito posto al furore dei sensi, si solleva in un clima in cui i palpiti dell'umana passionalità vibrano di una risonanza universale». 

Rileva invece Umberto Artioli

«Nei paesaggi-stati d'animo, negli oggetti-emblemi, nei personaggi che solidarizzano o si contrappongono come frammenti di un'unica inidividualità scissa in se stessa ed affiorante sulla scena in una pletora di sembianti diversi, circola quel che gli espressionisti definiranno Ich-Drama: un'opzione drammaturgica a fondamento allegorico in cui l'eredità romantica, prende quota su un impianto di sapore medievale».

La Figlia di Iorio è stata portata sullo schermo, all'epoca del muto, due volte. Recentemente, in occasione del centenario, il Comune di Pescara e Il Vittoriale hanno sostenuto la produzione della versione cinematografica della tragedia. L'ha diretta e prodotta il regista Mario A. Di Iorio, girandola in digitale. Elena De Ritis è Mila di Codra; Corrado Proia è Aligi.

'La figlia di Jorio', Francesco Paolo Michetti.


La grande tela raffigurante «La Figlia di Jorio» di metri 5,50 per metri 2,80 è una delle più importanti opere pittoriche dell'artista Francesco Paolo Michetti, realizzata nel 1895 e nello stesso anno esposta alla Biennale di Venezia; la famosa tragedia pastorale di Gabriele D'Annunzio con lo stesso titolo vide la luce nove anni dopo, nel 1904.
Stesso tema quindi trattato dai due artisti che insieme rimasero fortemente impressionati e turbati da una scena che si presentò loro nella piazzetta di Tocco da Casauria (paese natìo di Francesco Paolo Michetti): quella di una donna urlante, scarmigliata, giovane e formosa inseguita da una folla di mietitori ubriachi e provati dal sole.

Infatti, se diverse erano state le ambientazioni e i paesaggi che fecero da sfondo ai vari studi e bozzetti eseguiti prima di giungere all'idea finale della presente opera michettiana, unico era sempre stato il tema: una giovane, bella e formosa, nascosta in un ampio scialle, che passa rapidamente davanti a gruppi di persone disposte in modi diversi, che si fermano a guardarla con espressioni contrastanti di ammirazione, di desiderio, di compassione e di scherno.

Al tempo della realizzazione l'opera presentava una colorazione fresca, delicata, con forti contrasti chiaroscurali e con calde tonalità che purtroppo ora ha perduto: i contorni, le ombre, fusi con i rilievi, sono quasi evanescenti.
Resta però valida l'intelaiatura dell'opera nella sua costruzione scenica, nell'espressione dei personaggi ancora evidente in tutto l'insieme pittorico. 
La nota predominante del quadro resta la figura della donna che attira subito l'attenzione; l'artista ha voluto coprirla con un ampio manto rosso vermiglio, che ben si fonde con la veste della stessa intonazione cromatica riuscendo a creare un'armonica fusione di un'unica e viva tonalità.
Pennellate di bianco mettono in luce ed in risalto il petto, sorretto da due sostegni che si incrociano e la sottana di candido lino sporgente dalla lunga veste. Pesanti calze nere nascondono le gambe creando un equilibrio tonale con le sopraccalze di lana bianca che danno evidenza e risalto ai semplici calzari, molto in uso tra le genti di campagna; le stringhe delle «chiochie» si allacciano, si avvolgono e si incrociano intorno alle caviglie modellate.
Le poche linee del volto dal profilo semplice e perfetto e dalla bocca appena schiusa fanno intravedere la singolare bellezza della donna; orecchini in pesante oro, a cerchio, completano l'incorniciatura del volto.

La donna incede con passo lungo, rapido, sicuro; sembra voglia allontanarsi dal gruppo di persone che, in diversi atteggiamenti osservano il suo corpo. Non vuole vedere e non desidera essere vista: con le mani apre il manto che la nasconde, appena il necessario per scoprire una parte del suo bel viso e per scorgere avanti a sé la strada da percorrere. Si ha l'impressione di vederla scomparire dalla scena da un momento all'altro, verso l'albero fiorito che, in contrasto, sembra accoglierla con il suo simbolico candore o ricordarle il candore perduto.

La donna è quasi interamente nascosta dal manto: i pesanti vestiti coprono tutto il corpo. L'artista non ha voluto ritrarre la femmina ammaliatrice, con le sue provocanti forme ma ha voluto dare l'immagine di una povera donna perduta che sente tutto il peso della sua sciagura e che cerca di fuggire di fronte a certe situazioni delicate ed imbarazzanti. Per sua natura non è la donna procace, di mestiere, che invita con certi atteggiamenti del corpo e che adesca con sguardi significativi. È una donna che ha creduto nell'amore e ne ha sentito tutta l'ebrezza.

Nella tela, inoltre, sono ritratti cinque uomini, seduti o sdraiati sul profilo di un'altura, che con i loro volti esprimono sentimenti diversi ispirati dall'improvvisa comparsa di questa donna che tutti ben conoscono. Qui l'artista è riuscito ad ottenere con singolare efficacia una gamma di espressioni e di atteggiamenti: ogni figura ha una sua particolare funzione e nello stesso tempo crea un magistrale equilibrio in tutta la scena.

Sulla sinistra l'uomo disteso supino, che ha il viso dello stesso Michetti, come si può notare dai suoi autoritratti, ha uno sguardo malizioso, ostenta un'eleganza raffinata: sembra aver lanciato la sua offerta d'amore con un sottile ironico sorriso misto a nascosta bramosia, e ora quasi attende un consenso. Più in alto, emerge su tutti la figura di un giovane dal volto attonito: è Aligi, il «pecoraio», che rimane stordito, trasognato, trasportato al di fuori della realtà, trascinato dalla visione della donna che l'ha stregato, come è evidente dai suoi grandi occhi dilatati che manifestano stupore e meraviglia dinanzi a tanta bellezza. La disposizione delle gambe e dei piedi dà l'impressione che il giovane stia quasi per scattare per seguire la donna.

Il terzo uomo dalla folta ispida barba brizzolata ha un atteggiamento più calmo e seduto nel mezzo, sembra richiamare i suoi vicini alla compostezza e alla moderazione.

Un altro giovane, sdraiato, con le gambe incrociate verso l'alto e con la testa appoggiata alla mano destra, avvolto da un'artistica sciarpa colorata, quasi medita: ha lo sguardo trasognato e l'espressione di intimo desiderio, sembra emettere un leggero sospiro; accanto a lui c'è un altro giovane, dall'esile figura, tutto raccolto in se stesso con le mani strette tra le ginocchia che forse ha lanciato una frase d'invito accompagnata da un malizioso sorriso.

Altre due figure completano il quadro: nella parte più alta un uomo "tagliato" orizzontalmente e più in basso, a destra, una donna "tagliata" verticalmente. Il pittore non ha voluto mostrare il volto dell'uomo per creare un'atmosfera di mistero ed ognuno può immaginare la sua espressione alla vista della donna in rosso. Mentre, è ben evidente il volto della figura femminile che si volta a guardarla con curiosità, con meraviglia mista a tanta compassione e si scorge un'espressione di profondo turbamento. 
Sullo sfondo si staglia nella sua possente maestosità la Majella madre, più precisamente le cime nevose del Morrone, che racchiude ed abbraccia tutta la rappresentazione. Il suo delicato, modulato profilo è messo ben in risalto dal colore terso e luminoso del cielo azzurro e sereno.

Nell'insieme la colorazione è ben dosata in modo da dare maggiore risalto alle figure che si stagliano, con ritmica ondulazione, dal chiarore dello sfondo montagnoso e si legano mirabilmente con la parte inferiore densa di vibranti passaggi coloristici, ora chiari, ora scuri. Infine, ogni figura è giustamente studiata nel disegno e nei colori, con tonalità adeguate, legate armoniosamente in tutto l'insieme, così da offrire una visione sobria, serena e completa e conferire l'equilibrio tonale di tutta la composizione.

  1. Fonte: Restituto Ciglia, La figlia di Jorio, opera pittorica di F. P. Michetti, Pescara, Editrice Italica, 1977.
  2. Fonte: provincia.pescara.it
Un'altra fonte:

Ma 'La figlia di Iorio' venne mirabilmente rappresentata anche da un altro artista amico di D’Annunzio Francesco Paolo Michetti che la realizzò nove anni prima. La grande tela di metri 5,50 per metri 2,80 che è una delle più importanti opere pittoriche dell'artista fu realizzata nel 1895 e nello stesso anno esposta alla Biennale di Venezia. Stesso tema trattato dai due artisti che insieme rimasero fortemente impressionati e turbati da una scena che si presentò loro nella piazzetta di Tocco da Casauria (paese natìo di Francesco Paolo Michetti). Il dipinto fu creato nel suo studio-convento di Francavilla al mare e non direttamente ad Orsogna come alcuni sostengono. L’opera fu preceduta da diversi schizzi e bozzetti con varie ambientazioni e paesaggi ma unico rimase il tema: una donna giovane e formosa ,urlante, scarmigliata, inseguita da una folla di mietitori eccitati dal vino e provati dal sole. Sicuramente durante il soggiorno ad Orsogna, nella Torre Di Bene, Michetti produsse gli studi del paesaggio circostante che successivamente utilizzò per la realizzazione dell'opera; il profilo della Maiella che fa da sfondo all’opera è quello che si può ammirare solo da Orsogna. Dopo una prima versione dell'opera ad olio, l'artista realizzò quella definitiva preferendo una tempera di sua particolare invenzione e modificando la composizione con l'aggiunta del paesaggio e di alcune figure. Il personaggio femminile è Mila di Codra, per la quale ha posato come modella Giuditta Saraceni di Orsogna una ragazza che allora aveva 19 anni. L'artista le fece indossare pesanti vestiti dal colore bianco e rosso che le coprono tutto il corpo ed è quasi interamente nascosta dal manto. Michetti non ha voluto ritrarre quindi la femmina ammaliatrice, con le sue provocanti forme ma ha voluto dare l'immagine di una povera donna perduta che sente tutto il peso della sua sciagura e che cerca di fuggire di fronte ad una situazioni delicata ed imbarazzante. Vi sono ritratti cinque uomini, seduti o sdraiati sul profilo di un'altura, che con i loro volti esprimono sentimenti diversi ispirati dall'improvvisa comparsa di questa donna che tutti ben conoscono. Sulla sinistra l'uomo disteso supino, che ha il viso dello stesso Michetti, come si può notare dal suoi autoritratto, ha uno sguardo malizioso, il personaggio che sta alle spalle di Mila è Paolo de Cecco musicista e poeta frequentatore del Cenacolo michettiano di Francavilla; la figura in alto è Aligi, per il quale Michetti prese come modello un giovane contadino, che mostra uno sguardo trasognato: è già stregato dalla donna come è evidente dai suoi grandi occhi dilatati . L’uomo seduto nel mezzo dalla folta ispida barba brizzolata ha un atteggiamento più calmo e seduto nel mezzo, e sembra richiamare i suoi vicini alla compostezza e alla moderazione. Accanto a lui c'è un altro giovane, dall'esile figura, tutto raccolto in se stesso con le mani strette tra le ginocchia che forse ha lanciato una frase d'invito. Sullo sfondo si stagliano nella loro maestosità le cime nevose del Morrone sulla Majella che racchiudono ed abbracciano tutta la rappresentazione. Il suo delicato, modulato profilo è messo ben in risalto dal colore terso e luminoso del cielo azzurro . Il quadro fu presentato alla Biennale di Venezia nel 1895, dove si aggiudicò il primo premio. Nel 1896, La Figlia di Iorio fu acquistata da Ernest Seeger per la Galleria Nazionale d'Arte di Berlino. Successivamente, nel 1932 quando , fu esposta alla XVIII edizione della Biennale di Venezia nel Padiglione italiano, venne notata da Giacomo Acerbo ministro abruzzese, il quale ne propose l'acquisto all'Amministrazione provinciale di Pescara. Dopo lunghe e difficoltose trattative il dipinto fu acquistato e ancora oggi è esposto in un'ampia sala del Palazzo della Provincia di Pescara denominata Sala de “La figlia di Iorio”.


abruzzo24ore.tv

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