mercoledì 2 ottobre 2013

Mark Stewart Live: giovedì 17 ottobre 2013 al 'Black out rock club' (Roma).

Mente libera del post-punk e penna tra le più pungenti del rock 
presenta il suo nuovo album Exorcism of Envy!

Mark Stewart

Giovedì 17 Ottobre 2013

special guest: MC BROTHER CULTURE

TRE DATE IN ITALIA AD OTTOBRE PER UNA DELLE FIGURE CHIAVE DELLA DUBSTEP MONDIALE, TORNATO’ CON UN DISCO PIENO DI COLLABORAZIONI DI SPICCO!  
Con una line-up rinnovata, che presenta la collaborazione di Dan Catsis del The Pop Group (mitica band guidata da Stewart negli anni ’80) alla chitarra e Arkell & Hargreaves alla sezione ritmica (provenienti dai True Tiger / Submotion Orchestra) e l’apporto dei beat di MC Brother Culture del collettivo On-U Sound, torna per tre date in Italia Mark Stewart a presentare i suoi ultimi lavori: spaziando da “The Politics of Envy” alla selvaggia violenza sonora del suo compagno “Exorcism of Envy”, il pioniere post-punk di Bristol ci stordirà con il suo muro di suono.
Il suo ultimo lavoro, il già citato “The Politics of Envy” è il frutto di collaborazioni che includono Richard Hell, Lee “Scratch” Perry, Daddy G dei Massive Attack, i Primal Scream, i Factory Floor, Douglas Hart dei Jesus & Mary Chain, Youth dei Killing Joke, e Keith Leven dei PiL e The Clash. Il gota della musica inglese alternativa degli ultimi trenta anni.
Mark Stewart è una ricetrasmittente di cultura pop, che l’ha guidato e trasportato alla concezione e poi alla rivoluzione della dubstep e del post step, incorporandoli nel suo sound e imbevendoli della violenza punk e post-punk delle sue origini. Un vero e proprio maestro per centinaia di seguaci in questi ultimi trenta anni, e che ha scritto pagine fondamentali della storia della musica britannica e non solo.

BLACK OUT ROCK CLUB
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Info Line: 06.24.15.047
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Ufficio Stampa:
YORPIKUS SOUND.NOEGO // Press Giulia Agostinelli – pressnoego@gmail.com


Fonte: blackoutrockclub.com



Il funk-punk d'assalto
di Francesco Nunziata



Cresciuti nell'irrequieta Inghilterra dei 70, Mark Stewart e soci non hanno certo tenuto fede al nome: le loro sonorità incendiarie, in bilico tra punk e funk, dub e free-jazz, erano in grado di "trasformare il palco in un inferno"


Bristol, capoluogo della contea di Avon, Inghilterra. Siamo intorno alla metà degli anni '70. Con le navi che attraccano nel porto, non arrivano soltanto merci di ogni tipo, ma anche un buon numero di vinili stravaganti, soprattutto di artisti "funk". Mark Stewart, nel 1975, ha appena 14 anni, ma non disdegna di gironzolare in giro per i numerosi locali della città, in cerca di novità e di svago. Come ricorderà anni dopo in una intervista al New Musical Express: "Andavamo nei club per ballare i dischi di T-Connection, BT Express, Fatback Band. insomma, tutte quelle mostruose linee di basso. Poco dopo scoprii che un po' in tutte le città del Regno Unito c'erano ragazzi come me che amavano il funk e che vestivano alla maniera degli anni '50. Come me, inoltre, la loro era una sorta di reazione verso il cosiddetto "prog-rock", e, come me, quando arrivò il punk, ne seguirono immediatamente la scia". 

Fuori dai club, però, la situazione non era delle migliori. Una recessione economica senza precedenti stava impazzando come una tempesta indomabile. L'Inghilterra era allo sbando, e si cercavano le soluzioni politiche più adeguate per far fronte alla crisi. 

Stewart, nonostante la giovanissima età, stava sviluppando una forte coscienza politica, e, poco a poco, venne in contatto con i kids più maturi della zona. Ma l'idea che gli frullava nel "gulliver" (tanto per fare il verso al buon Alex di "Arancia Meccanica") era quella di mettere su una band, e dare così sfogo alle pieghe più recondite della propria anima. 

Nel frattempo, in quel di Londra, il punk aveva ormai lanciato la sua offensiva, e, come se non bastasse, la situazione politica continuava a sprofondare. Il Fronte Nazionale si era rafforzato, diventando una minaccia concreta. Gli scontri di Lewisham High Street non fecero altro che aumentarne la credibilità, tanto che - come ricorda Jon Savage nel suo "England's Dreaming"- venne elevato al rango di "difensore della libertà di parola e di unione" (!). Comunque, proprio dopo i fatti di Lewisham, iniziò il definitivo processo di "politicizzazione" del punk, in primis grazie all'operato dei Clash


The Pop Group
Ma ritorniamo a Bristol. Mark era finalmente riuscito a mettere su una band: galeotto fu un concerto dei Sex Pistols. Come lui, folgorati da quell'evento, Gareth Sager (chitarra, sassofono e pianoforte), John Waddington (chitarra), Bruce Smith (batteria) e Simon Underwood (basso). Decisero di chiamarsi "The Pop Group", ma non avevano nessuna intenzione di suonare "pop-music", no. nessuna intenzione. Quella è roba per ragazzini brufolosi, per gente che non ha voglia di ottenere il massimo da sé. Sentite cosa dice Sager a un giornalista del NME: "Credo che la gente sfrutti soltanto una minima parte delle sue potenzialità". E, ancora: "La gente crede che il rock abbia qualcosa a che vedere con la ribellione giovanile. E' patetico! Il rock significa prendere coscienza della realtà. Noi vogliamo aprire la gente a nuove esperienze. Il rock, infatti, è una celebrazione della consapevolezza". 
Siamo lontani anni luce da quelle che erano le premesse originarie del punk. La lezione di Strummer & C. è ben evidente, ma il Pop Group aveva una ideologia politica nettamente più definita e senza dubbio più radicale. Più vicini a Stewart e compagnia bella sono certamente le Slits, uno dei primi gruppi punk tutto al femminile. I destini delle due band furono talmente paralleli, che insieme fondarono l'etichetta "Y", mentre Bruce Smith, a un certo punto, divenne batterista in "comproprietà". 
The Pop Group,
'She Is Beyond Good And Evil'.
 - 1979 -
Nel loro approccio musicale e ideologico vi era una certa presa di posizione contro tutta la civiltà occidentale (si ricordino i versi "Western values means nothing to her", sul primo singolo dei nostri, "She Is Beyond Good And Evil"), e, di riflesso, una rivalutazione degli elementi "primitivi". Ecco allora venire in primo piano il "ritmo naturale" ("In The Beginning There Was Rhythm" fu il nome dello "split-single" pubblicato da Slits e Pop Group) e la cosiddetta "coscienza tribale" (la credenza che nelle società tribali dell'Africa non vi fossero alienazione e repressione). 

Questa "ideologia primitivista" considera la "danza" l'elemento cardine attraverso cui l'uomo si libera delle sue frustrazioni e delle sue angosce. Ecco, quindi, l'importanza delle strutture ritmiche di matrice "funk" e l'enfasi agit-prop in cui quelle strutture vengono diluite e quasi annientate, fino a diventare qualcosa di irriconoscibile, di imperscrutabile. La musica, nel caso della compagine di Bristol, si fa magmatica, tagliente, dionisiaca, totalizzante. Il "teatro della crudeltà" di Artaud sembra realizzarsi attraverso un assemblaggio sonoro che è quanto di più sconvolgente si possa immaginare nell'Inghilterra del tempo. Ma fondamentali per lo sviluppo musical-ideologico del Pop Group furono anche, e, forse soprattutto, la teoria della libidine di Wilhelm Reich (secondo la quale l'orgasmo è l'energia cosmica primordiale, capace di attuare la liberazione dell'uomo, il suo affrancarsi dalle costrizioni sociali), la rivolta situazionista, la poesia beat, l'avanguardia del movimento "Art And Language", la spiritualità-Zen di John Cage. E, nel loro tentativo di rendere le esibizioni live dei veri e propri happening, c'è senza dubbio la reminiscenza di certo teatro del '900, da Appia a Kantor, passando per Kaprow e Grotowski. In questo senso, definire il Pop Group una "rock-band" è alquanto riduttivo. 

Dopo una prima fase, passata suonando cover dei Modern Lovers e dei T-Rex, la band iniziò a sperimentare nuove e più complesse architetture armoniche. Spesso trascorrevano i pomeriggi ascoltando dischi di Sun Ra, Funkadelic, Captain Beefheart, Last Poets, Ornette Coleman, Miles Davis (soprattutto il periodo post-"Bitches Brew"), Can e di numerosi artisti "reggae". Esordirono al "Tiffany", nella loro Bristol. Era il 1978. E fu una vera e propria rivelazione, almeno per quelli che riuscirono a comprenderne la carica rivoluzionaria. 

La Radarscope Records intuì le loro potenzialità e li mise sotto contratto. Il primo frutto di questo matrimonio (tutt'altro che felice, a dire il vero) fu il singolo "She Is Beyond Good And Evil / 3.38", pubblicato nel 1979. Il lato A è una travolgente danza tribale, quasi un twist primitivista dalle tinte rumoriste e dub. Sul lato B, invece, trova spazio uno strumentale che chiama in causa i Can e strizza l'occhio ai This Heat

Nello stesso anno, i conservatori, guidati da Margareth Thatcher, vincono le elezioni, dando inizio a uno dei periodi più difficili della storia inglese. Il ridimensionamento dei poteri dei sindacati e la riduzione della spesa per l'assistenza statale (welfare state) furono soltanto le prime avvisaglie. 
The Pop Group, 'Y'. - 1979 -
Il Pop Group risponde pubblicando il suo primo 33 giri, Y, uno dei dischi più radicali, politicizzati e innovativi di tutti i tempi. Immaginate Ornette Coleman e James Brown che decidono di suonare insieme dopo essersi invaghiti del "dub" e di certe ritmiche tribali. Ecco, più o meno, questo è Y! Basta ascoltare la prima traccia, "Thief Of Fire", per rendersene conto: "avant-funk", se mai questo termine ha avuto un senso. Ma non solo. Qua e là, ghirigori dub, percussioni tribali, free-jazz granulare, frequenze radio, voli pindarici del sax e un canto che oscilla tra declamazioni agit-prop e urla cannibalesche. "Snowgirl" è una filastrocca degna dello Zappa più dissacratore, una strampalata poltiglia musicale imbrattata di free-jazz (c'è molto Cecil Taylor nell'utilizzo percussivo del pianoforte da parte di Sager) e funk minimale. Il dub e il funk vengono poi vivisezionati e resi subliminali su "Blood Money", illuminata da bagliori dissonanti alla Pere Ubu e martoriata senza pietà da ogni tipo di cacofonie, mentre il fantasma di Damo Suzuki si aggira liberamente tra le corde vocali di Stewart (avete presente "Peking O" su Tago Mago?). 

Il capolavoro del disco è senza dubbio "We Are Time", forse il funk più destrutturato di sempre. Le linee di basso sono corpose, possenti, come da tradizione; la chitarra stride, ruggisce, ulula; Smith macina una ritmica implacabile, ma tutt'altro che lineare, anzi, sempre pronta a seguire le evoluzioni vocali di Stewart. Il montaggio sonoro è spaventoso, ossessivo, lisergico, tanto che il brano finisce per crollare su se stesso, dilaniato da una mostruosa deflagrazione sonica (è questo l'esempio tangibile di come il Pop Group considerasse lo studio di registrazione al pari di un vero e proprio strumento). 

Dopo tanto sfacelo, sorge all'orizzonte lo scintillio timido di un pianoforte, che, tra richiami di corno e una voce che malinconicamente si proietta dentro lo spazio vuoto, sfiora le corde più sottili e vibranti dell'anima. Il paesaggio è desolato, oscuro, ma, nello stesso tempo, intimamente divino, tanto che "Savage Sea" sembra quasi essere una preghiera pagana. 

Si ritorna a macinare selvagge ritmiche funk su "Words Disobey Me", mentre il funk-jazz di "Don't Call Me Pain" innalza un'altra pregnante invettiva contro la società occidentale. Un lontano richiamo di corno apre "The Boys From Brazil", dove il tribalismo diventa nevrosi, paura, angoscia esistenziale. Le escursioni lancinanti del sax si fondono con il clima allucinato e con la ritmica spigolosa, dando vita a una spirale abissale, fittissima, eppure sorretta da una lucidissima visione d'insieme.



Le oscillazioni della chitarra, i suoi accordi glaciali e introspettivi - ancora memori dei maestri di Cleveland - disegnano gli anfratti desolati di "Don't Sell Your Dreams", trafitta dalle urla di Stewart e lasciata volteggiare nel vuoto, insieme con le assonanze e le dissonanze che ne costituiscono il fondo più criptico, più arcano. Le esplosioni imperiose della batteria, i barlumi di musica concreta, le disfatte strumentali: tutto contribuisce a innescare un corto circuito emotivo, un'estasi traumatica, prima che sopraggiunga il silenzio, risolto in una quotidianità fatta di rumori e di azioni alienanti. 

Capolavoro assoluto della new wave inglese, Y possiede tuttora una forza esplosiva e una carica dionisiaca impressionante. Il senso di paranoia che pervade i suoi labirinti lo avvicinano sicuramente ad altri grandi dischi del periodo, come il "Metal Box" dei P.I.L., "The Modern Dance" e "Dub Housing" dei Pere Ubu, "Half Machine Lip Moves" dei Chrome e "Half Mute" dei Tuxedomoon. L'utopia della rigenerazione dell'uomo, della sua definitiva liberazione dal rigido schematismo della vita sociale è, comunque, la caratteristica distintiva del Pop Group, e, in un certo senso, la sua giustificazione storica. 

Nei 9 tasselli che compongono questo disco leggendario, le fonti musicali più disparate vengono fuse e rielaborate nell'ottica di una rivoluzione permanente, là dove la magia rigeneratrice del "Living Theatre" incontra l'energia dissoluta del punk, la sfrontata frenesia sessuale del funk e l'intellettualismo metropolitano del free-jazz. La sintesi primitivista del Pop Group è senza dubbio uno dei lasciti più sublimi, irriverenti e lungimiranti della new wave tutta. 

Divenuti immediatamente una sensazione (forse più per le idee politiche che per il valore della loro musica), i nostri, dopo un diverbio con la Radarscope Records, decidono di passare alla Rough Trade, la storica etichetta fondata da Geoff Travis. Risolti i problemi contrattuali, nel 1980 pubblicano il loro secondo singolo, "We Are All Prostitutes", un bizzarro disco-funk proiettato in un caos di violini e di sassofoni impazziti. Sul lato B troviamo "Amnesty International Report On British Army Torture Of Irish Prisoners", un crepitante jazz rumorista sul quale Stewart legge il rapporto di Amnesty.



Il secondo 33 giri, For How Much Longer Do We Tolerate Muss Murder?, uscito nello stesso anno, si rivelerà essere il loro canto del cigno (da notare la magnifica copertina, sicuramente una delle più belle e significative di sempre). L'impatto politico è qui più diretto (certo il titolo non lascia alcun dubbio), e la musica, conseguentemente, si fa meno sperimentale, pur restando ostica e tutt'altro che di facile ascolto. La componente funk prende il sopravvento, mentre gli elementi free-jazz e tribali vengono, per così dire, dispersi nel tessuto armonico, diventando quasi del tutto irriconoscibili. 

Quanto detto è evidente fin dai due brani iniziali, "Forces Of Oppression" e "Feed The Hungry": si tratta di tessuti ritmici corposi e ossessivi, in cui il sax di Sager può disegnare le sue imprevedibili traiettorie e la solita chitarra rumorista di Waddington seminare dissonanze come fossero semi trasportati dal vento in mezzo a radure sconfinate. Il canto di Stewart, invece, si è fatto meno "schizoide": adesso non racconta più per metafore, declama, e lo fa con una passione dissoluta, eccessiva. C'è spazio, inoltre, per la bizzarra rilettura di "One Out Of Many ( E Pluribus Unum)" dei Last Poets; per il dub dilatato di "There Are No Spectators"; per il free-jazz abrasivo di "Communicate". Ecco, poi, l'agit-punk di "Rob A Bank", il baccanale di "Blind Faith" e le fragranze disco-music di "Justice". Qua è là, voce e sassofono sono, come al solito, trattati elettronicamente, in un modo in cui erano soliti operare i Chrome e i Throbbing Gristle.



L'avventura del Pop Group è ormai giunta alla fine. Ma c'è ancora tempo per immettere sul mercato We Are Time, che raccoglie materiale live, session radiofoniche e outtakes. Un'altra raccolta, We Are All Prostitutes, vedrà la luce nel 1998. 

Morto un papa se ne fa un altro.anzi, quattro! E così, sepolta la storica ragione sociale, la vecchia lezione fu mandata a memoria, con le dovute innovazioni e contaminazioni, dai Pig Bag del bassista Underwood, dai Rip Rig & Panic di Smith e Sager, dai Maximum Joy dell'altro chitarrista Waddington e dal Mark Stewart solista, coadiuvato dai Maffia (ex Tackhead).

"Eravamo tutti dei Rimbaud adolescenti, votati a trasformare il palco in un inferno


Gareth Sager

Fonte ondarock.it




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