mercoledì 9 ottobre 2013

Silver Apples.

Dan Taylor              -                 Simeon Coxe
I Silver Apples sono uno dei nomi di maggiore culto della storia del rock. Silver Apples (1968) e Contact (1969) sono infatti due capolavori misconosciuti la cui importanza è paragonabile per l'epoca ad altri dischi "underground" come Velvet Underground and Nico o Phallus Dei.

Formatisi a New York nel 1967 dall'incontro tra Simeon Coxe (voce, elettronica) e Dan Taylor (percussioni), preso in prestito il nome da una poesia di Yeats, il duo è tra i pionieri della musica elettronica moderna grazie all'utilizzo del Simeon, dispositivo elettronico composto da 9 oscillatori e 86 controlli manovrabili attraverso mani, gomiti, ginocchia e piedi.

La grande intuizione del gruppo è stata di combinare questa passione per l'elettronica d'avanguardia al clima psichedelico dell'epoca, costruendo un modello di musica ipnotica, monocorde, pulsante e molto lisergica negli effetti.

L'influenza avuto dal gruppo è immensa ed è ben avvertibile in generi come il krautrock, il synth-pop, la new wave, la techno e più in generale su gran parte dell'elettronica.

Meno importanti ma ugualmente visionari i dischi prodotti in seguito al ritorno sulle scene avvenuto sul finire dei 90s (dopo un'inspiegabile assenza trentennale): Beacon (1997), Decatur (1998) oltre a The garden (1998) raccolta di materiale inedito del periodo 1967-69.



Fonte storiadellamusica.it




- 1968 -
                                     
                                                                                                                                  




Full album

Silver Apples is an organic mechanism composed of the Simeon and the Taylor Drums”, con queste parole nel 1968 il produttore Barry Bryant presentava il progetto di due musicisti newyorkesi, Danny Taylor e Simeon Cox, che avevano deciso di farsi chiamare “Silver Apples” in omaggio a una poesia di William Butler Yeats. Non era una band, ma un “meccanismo organico” dotato di proprie funzioni vitali che sfuggono a noi umani. Già, perché le mele d’argento non sono frutti di questo mondo, o almeno non di questo pianeta. Se davvero dovessero esserci forme di vita intelligenti là fuori nell’universo, su qualche pianeta sperduto di una remota galassia, è facile immaginare che la loro tradizione musicale sarebbe fatta di sonorità simili a quelle che i Silver Apples elaborarono alla fine degli anni Sessanta. C’è infatti qualcosa di paradossalmente primitivo, atavico, nel loro futurismo sonoro. È come ascoltare la world music dell’universo, il folk di antiche civiltà aliene.

L’equipaggiamento tecnico di cui Taylor e Cox si servirono era degno delle visioni marziane di Asimov: il primo aveva assemblato un’imponente batteria - composta da tredici tamburi, quattro piatti, un hit-hat e due campane - che gli permetteva di produrre da un lato pulsazioni dalla cadenza regolare come un meccanismo programmato, dall’altro sequenze ritmiche di stampo tribale; dal canto suo, Cox aveva messo a punto un apparecchio elettronico battezzato col suo stesso nome, “The Simeon”.
Si trattava, in pratica, di una sorta di gigantesco mixer composto da nove oscillatori: quello principale per la melodia e i tre per il ritmo erano azionati da pulsanti manuali, i restanti cinque per i bassi erano invece comandati tramite pedali. A completare l’armamentario c’erano - tra le altre cose - una radio, un microfono, tre amplificatori, un echo-plex e un effetto wah-wah. Il tutto per un totale di ben ottantasei controlli! Tale arsenale tecnologico è ciò che permise al duo newyorkese – in questo omonimo album d’esordio e nel successivo e altrettanto allucinante “Contact” – di conquistare nuovi territori psichedelici non più governati da chitarre acide e organi in delirio, ma da artefatti tecnologici che portavano nomi umani, come dei replicanti. I Silver Apples furono i profeti del regno elettronico venuti sulla terra per spiegare agli uomini con le chitarre che sarebbe venuto il giorno in cui avrebbero fatto a meno della sei corde elettrica; quel giorno i nuovi re del rock avrebbero avuto nomi teutonici (Kraftwerk, Neu!) o sinistri (Suicide).

In effetti, il kraut-rock è già nella ritmica spezzata - progenitrice di “Mushroom” dei Can - di “Lovefingers”, mentre i germi della new wave covano nelle visioni spettrali di “Velvet Cave”, moltiplicandosi nella litania ossessiva di “Oscillascions


 e nella marcetta extraterrestre di “Seagreen Serenade”. Del resto, il recitativo apatico di “Dust” – basato, come la maggior parte dei brani, su una poesia dell’amico poeta Stanley Warren - e il cerimoniale pagano “Dancing Gods” - che ambienta su marte un rito religioso degli indiani Navajo – sembrano incisi apposta per rivelare le origini più remote degli Omd più oscuri e dei Simple Minds dionisiaci di “Empires And Dance”.

A dissipare le tenebre dell’anima ci pensano, allora, quelle della mente e non è che la cosa sia più rassicurante: “Whirly-Bird” e “Misty Mountain” sono immaginarie fanfare demenziali, laddove “Program” tradisce finalmente un briciolo di raziocinio nel suo mescolare la specialità della casa (ritmo paranoico e pulsazioni amniotiche) con disturbi radiofonici  che, memori della Radio Music di John Cage e degli esperimenti pioneristici di Filippo Tommaso Marinetti, sovrappongono frammenti di annunci al Concerto n. 3 di Vivaldi.

Dopo i due avveniristici album del biennio 1968-69, i Silver Apples lasciarono le scene per quasi trent’anni, ritornando solo nel 1998 con tre uscite discografiche che cercavano invano di riallacciare il filo con un passato leggendario. Non ce n’era bisogno, comunque: la storia del rock li aveva già consacrati come veggenti venuti dallo spazio.



Tracklist

Oscillations 
Seagreen Serenades
Lovefingers
Program 
Velvet Cave
Whirly-Bird
Dust
Dancing Gods
Misty Mountain


- 1969 -





Full album

Track List

You And I
Acqua
Rubino
Gypsy Love
Lei non Foolin 'Me
Ho conosciuto Amore
A Pox On You
Confusione
Fantasie


Fonte ondarock.it

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