ANCONA – Il prossimo 29 luglio il Fesival Spilla, organizzato da Comcerto, ospiterà l’artista francese Rover, nuovo alfiere del romanticismo in musica. Appuntamento alla Mole Vanvitelliana.
Rover, all’anagrafe Thimothée Regnier, è un artista francese che si è fatto conoscere lo scorso anno grazie ad un album di debutto che ha fatto tirare in ballo Serge Gainsbourg, David Bowie, Antony and the Johnsons, Bon Iver e tanti altri musicisti che hanno fatto del pathos e del talento interpretativo i propri punti forti.
Timothée scrive, compone, suona e arrangia tutte le sue canzoni. Ha registrato il suo album di debutto con Samy Osta (Cocosuma, Tahiti Boy & The Palmtree Family) e Guillaume Jaoul che arrivano dall’etichetta Third Side Records. Prodotte con tecnologia analogica e con l’idea di catturare l’atmosfera e lo stato d’animo che lo hanno portato a scrivere, le sue canzoni beneficiano sia della precisione dello studio di registrazione, sia di una serie di strumenti che formano il suo audace approccio all’arrangiamento (organi, piano, chitarre, sintetizzatori, drum machine, etc.).
Timothée ha scelto Rover come nome d’arte per il suo amore per le macchine inglesi (“I miei genitori non guidavano altro quando ero bambino”) ma anche perché vede la sua vita come una lunga serie di viaggi, e sente di avere ancora molta strada da fare per arrivare a destinazione.
Una scrittura dolce e sensibile che mantiene un nervo sufficiente per non annegare nell’acqua di rose. Ha il fisico di un avventuriero e una voce che sembra caduta da una nuvola. Rover ci infiamma con il suo pop barocco e prezioso.(Les Inrockuptibles)
Fonte www.ilmascalzone.it
Recenzione.
di Vassilios Karagiannis.
Album.
'Rover'
Con quelle pose studiate nel minimo dettaglio, con quell'atteggiamento che tenta disperatamente di evocare un improbabile incrocio tra Antony e Gérard Depardieu, e da ultimo, con quel baritono istrionico, al limite della pomposità gratuita, è comprensibile che ai più la figura di Timothée Régnier susciterà un'indigeribile antipatia. Quando poi apre bocca (andatevi a leggere la motivazione alla base del suo nome d'arte) la tentazione di lasciar perdere e passare ad altro si fa irresistibile. Eppure, messa da parte l'avversione per certi preziosismi, col tempo di due-tre ascolti non tarda a manifestarsi il senso dietro all'operazione Rover.
Perché, al di là di ogni possibile sovrastruttura (ma poi, chi l'ha detto che costruirsi un personaggio debba per forza essere una nota di demerito?), al di là dei toni da maudit fuori tempo massimo, i brani che imbastiscono il debutto del trentatreenne chansonnier transalpino certificano un talento lucido e tutt'altro che banale, che aspettava soltanto l'occasione giusta per poter sbucare.
Dalla Grande Mela (in cui ha condiviso gli anni del liceo con membri degli Strokes), passando per il Medio Oriente, in cui si è imbarcato in una proficua carriera da punk-rocker in una band di successo, non si può di certo dire che il musicista non abbia racimolato un gran numero di esperienze. Ma se si accetta la logica che tutto può rivelarsi importante ad un certo punto, anche l'incontro apparentemente più irrilevante e la giornata più ordinaria, allora possiamo certamente affermare che Régnier sappia cosa significhi vivere una vita densa, e come trarne il massimo possibile.
E che ne abbia tratto davvero il massimo, questo è poco ma sicuro. L'album omonimo mostra infatti un autore colto e perspicace, che accanto all'enfasi narrativa (ascoltare il singolo di lancio “Aqualast” per rendersene conto) esibisce uno spaccato di sensibilità pop come non si coglieva da molto tempo oltralpe, un esaltante incrocio di ostentazione vintage e squisitezza melodica.
E dire che di trucchetti preconfezionati, di stratagemmi ad hoc, il cantautore non ne sente proprio l'urgenza; le canzoni si avvicendano nel loro struggimento à la Gainsbourg senza mai vergognarsi di palesare i propri ascendenti. Il Bowie glam che affiora negli intrecci melò di “Champagne” e “Carry On” coabita infatti senza esitazioni accanto alla nu-new wave di Paul Banks e compagni(“Remember”, “Tonight”), culla come un bimbo la ricercatezza maliarda degli Air (“Queen Of The Fools”), procede a ritroso alla riscoperta del proprio lato folk (“Lou”). Il tutto, tenendo sempre presente la centralità della scrittura, come cardine imprescindibile su cui lasciar correre a briglia sciolta il demone di una vocalità distintiva e pronunciata.
Stentoreo quando si lancia nei suoi accorati racconti d'amore, ma abile nello sfoderare, a seconda dei casi, un invidiabile falsetto ricolmo di malinconia, Rover si smarca con abilità dall'intralcio degli idoli di una vita in merito alla potenza del timbro e alla statura delle interpretazioni (come nella conclusiva “Full Of Grace”, tra le tante), che giocano col trito stereotipo del cantastorie assetato di continui calvari emotivi.
A scapito di un amalgama non proprio immediatissimo nell'assimilazione, “Rover” è un lavoro che porta a casa una vittoria su tutti i fronti, che afferma, se ancora ce ne fosse bisogno, come l'inclinazione alla teatralità sappia e possa andare ben oltre un'oziosa caricatura.
Dalla Grande Mela (in cui ha condiviso gli anni del liceo con membri degli Strokes), passando per il Medio Oriente, in cui si è imbarcato in una proficua carriera da punk-rocker in una band di successo, non si può di certo dire che il musicista non abbia racimolato un gran numero di esperienze. Ma se si accetta la logica che tutto può rivelarsi importante ad un certo punto, anche l'incontro apparentemente più irrilevante e la giornata più ordinaria, allora possiamo certamente affermare che Régnier sappia cosa significhi vivere una vita densa, e come trarne il massimo possibile.
E che ne abbia tratto davvero il massimo, questo è poco ma sicuro. L'album omonimo mostra infatti un autore colto e perspicace, che accanto all'enfasi narrativa (ascoltare il singolo di lancio “Aqualast” per rendersene conto) esibisce uno spaccato di sensibilità pop come non si coglieva da molto tempo oltralpe, un esaltante incrocio di ostentazione vintage e squisitezza melodica.
E dire che di trucchetti preconfezionati, di stratagemmi ad hoc, il cantautore non ne sente proprio l'urgenza; le canzoni si avvicendano nel loro struggimento à la Gainsbourg senza mai vergognarsi di palesare i propri ascendenti. Il Bowie glam che affiora negli intrecci melò di “Champagne” e “Carry On” coabita infatti senza esitazioni accanto alla nu-new wave di Paul Banks e compagni(“Remember”, “Tonight”), culla come un bimbo la ricercatezza maliarda degli Air (“Queen Of The Fools”), procede a ritroso alla riscoperta del proprio lato folk (“Lou”). Il tutto, tenendo sempre presente la centralità della scrittura, come cardine imprescindibile su cui lasciar correre a briglia sciolta il demone di una vocalità distintiva e pronunciata.
Stentoreo quando si lancia nei suoi accorati racconti d'amore, ma abile nello sfoderare, a seconda dei casi, un invidiabile falsetto ricolmo di malinconia, Rover si smarca con abilità dall'intralcio degli idoli di una vita in merito alla potenza del timbro e alla statura delle interpretazioni (come nella conclusiva “Full Of Grace”, tra le tante), che giocano col trito stereotipo del cantastorie assetato di continui calvari emotivi.
A scapito di un amalgama non proprio immediatissimo nell'assimilazione, “Rover” è un lavoro che porta a casa una vittoria su tutti i fronti, che afferma, se ancora ce ne fosse bisogno, come l'inclinazione alla teatralità sappia e possa andare ben oltre un'oziosa caricatura.
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