giovedì 26 settembre 2013

Liars.

L'aftershock della no wave
di Mimma Schirosi



I newyorkesi Liars hanno impresso un nuovo shock "no wave" all'umano torpore delle coscienze, tra invocazioni pagane e ironico cinismo, sul sentiero della deflagrazione sonora. Racconti di urbana follia, dalla fantasmagoria di New York all'essenzialità di Berlino.


Il sistema sanitario degli Stati Uniti d'America, nella fattispecie quello psichiatrico, non è onnipotente, la cultura post-moderna/neo-millennica si nutre, bulimica, di apparenti follie, la tavola dei valori si tras-valuta e l'intellighenzia musicale si avvolge su un delirio compiaciuto. 
I modi di perseguire l'originalità si diversificano: vecchie glorie si rifanno pietosamente il make-up, altre, con sincero coraggio, indossano i segni del tempo, nuove leve emulano con cocciutaggine da asini, i poser non mancano, l'indie-pop a volte diverte, altre fa sbadigliare, i live raramente inducono estasi, l'ascoltatore esigente/emotivo aspetta l'agognato pugno nello stomaco. 
Se è vero che la catarsi passa attraverso una fase di doloroso scuotimento, la cui terapia prevede la somministrazione di incubi angosciosi, immagini raccapriccianti dai quali non distogliere lo sguardo, sinistri ghigni di un maligno che altera la mimica facciale, cigolii di una meccanica inquietante, metamorfosi bestiali, esistono ancora infermieri/fuorilegge che, sfuggendo al controllo di un'autorità viscidamente politically correct, periodicamente tornano a trafficare con la macchina dell'elettroshock. I Liars, come demoni ex machina risaliti dalle viscere della terra, vengono a dosare le scariche sonore sforando il fabbisogno quotidiano di endorfine e/o superando lo stato di calma che diviene, nella migliore delle ipotesi, caduta irresistibile in una spirale di oscura psichedelia vicina all'ottundimento

Come un'entità che scivola, incolume, nella pelle del drago più incandescente, l'allampanato Angus Andrew,
Angus Andrew
insieme con il chitarrista e percussionista Aaron Hempill, il bassista Pat Noecker e il batterista Ron Albertson, inizia a spaccare il timpano di una New York escatologicamente delirante millennaristiche fobie nel 2000, con l'album They Threw Us All In A Trench And Stuck A Monument On Top

Il sistema musicale, intorpidito e ammansito, dopo le remote, ormai sfocate follie no wave, è afferrato, strizzato, scosso, alla stregua di un modesto colletto bianco intristito dal rimpianto dei giovanili fulgori. La morfologia liarsiana si staglia, infatti, come una cospirazione al sonno delle umane coscienze, una foga cieca ed esoterica, a tratti super-ominica, per la gran carica fisica e il potenziale di scuotimento psichico presente già dal primo album.




In They Threw Us All in a Trench And Stuck non esistono sorrisi, semmai ghigni beffardi, non c'è raggio di sole, ma solo scuri occhiali da sole che proteggano dall'invasione dello stesso, dimentichiamoci sconti di pena, perché la realtà è presa, capovolta, rigirata, accusata, sadicamente seviziata con surreale sdegno. 
Immediatamente il furioso richiamo al pubblico, distratto dal bailamme delle umane stupidità: Angus Andrew, sempre più adirato, in un crescendo sinistro, urla "Can you hear us? Can you hear us? Can you hear us?", sostenuto dall'urto frontale di una batteria che tutto sp(i)azza ("Grown Men Don't Just Fall In A River Like That"). A seguire, il mister X, emblema della medietà, viene aggredito di spalle dalla scheggia punk-funk di "Mr You're On Fire, Mr", con un piglio alla Red Hot Chili Peppers in versione spiritata e funambolica.



Una fiera belva alla This Heat si aggira umorale e pronta all'attacco in "The Garden Was Crowded And Outside", esibendo il lato più acido di sé nell'omaggio/campionamento al graffio delle ESG ("Tumbling Walls Buried Me in Debris with ESG"). 
L'efferato basso funk, alternato da schitarrate finto pop, irrompe nella stanza dei bottoni con "We Live NE In Compton" chiuso dalla lunga catatonia in visionario e intimo soliloquio inaccessibile all'altrui orecchio di "This Dust Makes This Mud", traccia della durata di 30, angosciosi minuti circa. 


Liars, 'Fins to make us more fish-like'. 2002.
Alimentando il clamore dell'esordio, i Liars incidono l'Ep Fink To Make Us More Fish Like che, insieme a una riproposizione di "Grown Men Don't Fall In The River, Just Like That", ospita la corsa urgente di "Pillars Were Hollow And Filled With Candy So We Tore Them Down" e la sprangata schizoide di "Everyday Is A Child With Teeth"; nello stesso anno pubblicano lo split Atheists Reconsider, piccolo gioiellino d'energia e deflagrazione condivise, attraverso la reciproca coverizzazione, con gli Oneida, altro prodigio della scena newyorkese di inizio millennio. 
La sensazione è di germinale stato confusionale, immediatamente dichiarato dai Liars in "Rose And Licorice", per poi esser sbattuto in faccia all'ascoltatore dagli Oneida ("Privilege") che, con "Fantastic Morgue" si preparano alla dannazione punk della cover di "Every Day Is A Child With Teeth". I Liars, da virtuosi dell'irriverenza, recitano con provocatoria nonchalance la filastrocca di "All in All In A Careful Party" e combinano alienanti stralci di conversazione esasperati sino all'ossessione dai rintocchi di uno xilofono compulsivo ("Dorothy Taps The Toe Of The Famil"), rimandando a certe turbe della personalità di discendenza Death In June
Julian Gross
Dopo due anni di ulteriore avanzata verso l'abisso più allucinato, un cambiamento nella line-up (la fuoriuscita di Noecker e Albertson e l'entrata di Julian Gross alla batteria) e due Ep, We No Longer Knew Who We Were, brillante di cinico punk-funk ("I Hate Stupid Phones") e spintoni punk n' roll ("Every Two Hours With A Ducks Fan") e There's Always Room On The Broom, contenente i due inediti "Skull & Crossbrooms" (breve e strumentale), e "Broom"(ennesimo passo tratto dal breviario dei mantra), arriva il nuovo trip: l'ossessione della stregoneria, il limite dell'eresia, l'allucinogeno più macabro, mescolati in una pozione letale, generano They Were Wrong So We Drowned
Il colore è sempre più oscuro e frazionato in particelle rosso cupo, pulsanti ipnotica attrazione. Il disco si apre con piglio industrial, echeggiante passi di un rituale di iniziazione massonica in piena narcosi, perfettamente resa dal vigore delle percussioni di Hempill ("Broken Witch"). L'entità Pop Group apre e rivolta l'aria con il semi-ululato di "There's Alwais Room On The Broom", mentre, sull'altare della cultura, si sta per celebrare il rito dei mantelli neri intorno a "We Fenced Other Houses With Bones of Our Own", dalla litania metropolitana ("Fly, fly, the devil's in your eyes... shoot... shoot"). 










Albe seguenti sabba notturni, guardano, sul ciglio, il baratro oceanico ("Read The Book That Wrote Itself"). Racconti di urbana follia girano nel vortice stordente di "They Took 14 For the Rest Of O", prima che un inaspettato organo segni la chiusura/filastrocca floydiana ("Flow My Tears the Spider Said"). 

La bellezza del secondo album viene ulteriormente enfatizzata dall'uscita di un altro suggestivo Ep, accompagnato dalla realizzazione di tre video: We Fenced Other Gardens With The Bones Of Our Own, contenitore di "Sex Boy", cover dei Germs resa scheggia impazzita, simile a una camicia di forza strappata con foga, e "The Fountain And Its Monologue", inumano strumentale di eco lontane, "disturbate" da sotterranei percuotere.




L'effetto impressionante di They Were Wrong So We Drowned viene confermato da un lungo tour che tocca anche l'Italia. La sensazione di rapimento, già suscitato dai lavori in studio, diventa inesorabile cooptare nel live. Andrew non nasconde l'esagitata e iconoclasta personalità, presentandosi in completi/pigiama mille righe su un palco che diventa quasi la gabbia di uno zoo, da cui sbraitare e divincolarsi, arruffianandosi un pubblico estasiato dall'energia primitiva e letale. 

Il tutto lascia presagire nuove bestialità che culminino nell'irrazionale, definitiva perdita del controllo, nella beffarda lobotomia di ogni stupidità. Ciò che accade, invece, è inaspettatamente più ponderato: agli inizi del 2006 esce Drum's Not Dead, album segnato e concepito da un netto cambio di residenza, che sposta il baricentro della ricerca dalla fantasmagoria di New York all'essenzialità di Berlino. 
Come sradicandosi da un luogo che ha perso tutta la sua naturalità, il gruppo sembra compiere un atto di profonda introspezione, realizzando un lavoro che, stavolta, nasce dall'alto del corpo. L'approccio parte da una genealogia ancora ancestrale del mondo, quasi animato, nelle sue zolle più profonde, da un paganesimo celebrato sulle percussioni, paganesimo che trova, tra le sue divinità, Drum e Mt Heart Attack. Le due entità convivono in un dinamismo dialettico, dalla cui tensione hanno luogo le terrestri vicende, viste, dalla profondità dei creatori, come rifrazioni di un unicum illusorio, ingannevole per chi vi sguazza dentro. 
Ad anticipare l'atmosfera vulcanica di Drum's Not Dead, i due Ep It Fit When I Was A Kid e The Other Side of Mt. Heart Attack; nel primo, oltre a un remix della title track, trova posto il punk-industrial di "Frozen Glacier Of Mastadon Blood" e l'avvitamento di bulloni di "Bingo! Count Draculuk". In The Other Side Of Mt Heart Attack, oltre ai due remix della title track e di "Drum And The Uncomfortable Can", squarcia le fondamenta il martello pneumatico dell'inedito "Do As The Birds, Eat The Remains".





E, finalmente, è Drum's Not Dead: l'incipit si trascina dietro un'aura alla "Amnesiac", confusa in un orizzonte troppo dilatato, portata quasi all'estasi dalle percussioni ("Be Quiet Mt. Heart Attcak") che, occupata la scena, richiamano, alla stregua di flauto magico, anche il cantato, in un'unica, angosciosa invocazione ("Let's Not Wrestle Mt. Heart Attack").






Come ingaggiata da un'imminente, cosmica lotta di sumo, arriva Drum, ammorbando l'aria della sua presenza altrettanto potente e determinante le sorti del conflitto: la voce si fa allucinato e lento declamare su un tappeto sonoro al rallentatore ("A Visit From Drum"). Sfiorando una psichedelia vicina al marchio Mercury Rev, avanza "It Fit When I Was a Kid", giocata sulla schizofrenia di un ego capace di mutare voce e stato d'animo, in corrispondenza di percussioni e pianoforte, come un'identità sospesa tra la veglia e il sonno.



Introdotta da un cantilenare ossessivo, torna Drum, evocata con drogato coinvolgimento ("Hold You Drum"), interrotta da un piccolo, oscuro ammonimento a Mt Heart Attack, e sostenuta dalla spinta emozionale di "Drum And The Uncomfortable Can". 



Dopo il crepuscolare tribalismo alla Virgin Prunes di "You, Drum", si chiude con la stupefacente sorpresa di una pacata, lisergica ballata dedicata a Mt Heart Attack ("The Other Side Of Mt. Heart Attack"), momento di rilascio tensionale, successivo alla discordia.




Dopo, solo silenzio: lo sguardo si posa, attonito, sulle macerie dell'erosione e, spaventato, rifugge l'attrazione a guardare diritto negli occhi il delirio latente nell'ombra terribile e destabilizzante dell'umana ragione. 
La coscienza offesa dall'andazzo generale delle cose brama, invece, nuovi accessi di collera che, alla stregua di movimenti tellurici, tutto distruggano e ogni cosa rimescolino, piegando l'auto-convinzione d'onnipotenza del sistema alla consapevolezza della propria miseria, e mutando la falsa casualità in terribile destino.

Giunti sulla linea di demarcazione tra Eros e Thanatos, pare che con Liars (2007) la band
Liars, 'Liars'. 2007
newyorkese abbia scelto un controverso limbo, costruito sull’illusoria convinzione di "essere dentro" al sistema, convinzione, però tentata dai più angosciosi, terrificanti e catartici incubi, che a volte ritornano in tutta la loro forza demistificatrice ("Leather Prowler"), a volte si sciolgono su catatoniche chitarre disturbate da sinistri rumori di fondo ("What Would They Know"), altre sfondano la zolla più coriacea del sistema nervoso con un pestare la batteria alla stregua di un divertissement con il martello pneumatico ("Pure Unevil"), per poi inseguire il miraggio di ciò che è stato immediatamente prima, adesso confuso da una nuova appartenenza alla realtà che ne sfoca la vista ("The Dumb in the Rain").

La ricerca di un unicum smarrito prosegue con l'inaspettato chitarrone hard-rock che tenta di restituire una maggior immediatezza al lavoro ("Cycle Time") e un'intro di finta tenebra voodoobilly smarritosi su un alt-rock non troppo gonfio ("Freak Out").
In chiusura, quasi a dimostrare di non aver rinnegato un certo, fortunato passato, un ritorno al punk funk più acido e psichedelico, alla They Were Wrong So We Drowned ("Clear Island"), e una ballata in bianco e nero per organo, batteria, voce ed effetti, capace di anticipare certo bramoso mood autunnale ("Protection"). 
La capacità di rimescolare abilmente il tutto per tirarne fuori gli incubi più attraenti e, allo stesso tempo, sedurli sino alla catarsi, anche scegliendo la strada di una più ostica eterogeneità, ci restituisce un disco inaspettato, più complesso di quanto sembri e libero dall’ansia di assurgere a definitivo capolavoro.
'Sisterworld', Liars. 2010
Nei tre anni che separano Liars da Sisterworld (2010), la calma apparente con cui li avevamo lasciati lascia il posto a tensioni che, come ribollire vulcanico, emergono prepotenti. "Scissor" è il pericoloso strumento che si muove nelle mani di un uomo affetto da disturbo di personalità multipla ("I found her/ With my scissor/ This heart fell/ To the round/ I'm supposed to save you now/ But my hands are freaking out"), la cui alternanza di stati d'animo è efficacemente resa dall'intro dolente e messianico, alla maniera di un ambiguo, nuovo Re Lucertola, per poi esplodere nel falsetto percussivo di Angus e tornar nei ranghi della gravità di un organo. Laddove "Barrier No Fun" lascia il retrogusto di una festa, seppur mesta, nella quale il senso d'alienazione viene ricamato nell'aria da un violino à-la Tuxedomoon, "Drip" è rituale cigolante, ambient mefistofelica, cerimonia oppiacea per pochi adepti.
La no wave citazionista di se stessa e la nevrosi scoppiano tutte nella follia omicida di "Scarecrows On A Killer Slunt", atto di feroce salvezza da esistenze inconsapevoli della propria mediocrità, come reca il ritornello finale ("How can they be saved from the way they live every day?"), condito da distorsioni à-la Throbbing Gristle, per poi andare a passeggiare con i Radiohead nell'Ade denso di sottili polveri sulfuree ("Drop Dead"). Servito il dancefloor avvezzo a ballare i Liars (e quanto è liberatorio!) con "The Overachievers", si chiude con materiale onirico tratto dalla più narcotica delle evanescenze ("Too Much Too Much).



Il sogno potrebbe essere anche terminato. O potremmo illuderci che lo sia. In fondo, l'importante è non tentare d'aggirare l'Apocalisse, ma starci al gioco senza pretendere di vincerla. La presunzione del bene potrebbe nullificare quanto la banalità del male. E i Liars, ancora una volta, dimostrano d'esserne consapevoli.


'Wixiw', Liars. 2012.
WIXIW (2012), sesto album in studio per la Mute, generato in un non-luogo isolato dal delirio urbano - quasi come a prenderne le distanze per studiarlo con maggior distacco - e registrato a Los Angeles, conferma la capacità di modificare la forma senza alterare troppo la sostanza di quella che, da sempre, resta un'oscura poetica del post-Apocalisse. Smembrando l'ossatura dell'album è immediatamente percettibile un uso privilegiato dell'elettronica, che stavolta diventa matrice fondamentale e sempre più contigua al mood dei più recenti Thom Yorke & co., talvolta in un contrasto più vischioso, netto e sofferto nella tensione e nella pulsione ("No. 1 Against The Rush"), in altri casi apparentemente più accostabile a quell'incedere etereo, per poi rivelare una forza di gravità ben più pesante ("Who Is The Hunter"), sino ad aprirsi a una tessitura più leggera e consanguinea ("His And Mine Sensations"). 




Se l'esperienza primordiale dei Liars affonda le proprie radici in una serie prolungata di scosse d'assestamento, successive all'apice della scala no-wave, gli anni trascorsi dall'esordio ripescano dal torbido del più oscuro post-punk, complice la co-produzione di Daniel Miller, storico fondatore della Mute, che fa salire il panico sino al ricordo angoscioso del ghigno malefico di Johnny Rotten nella preziosa scatola di metallo ("A Ring On Every Finger", "Brats").
La fedeltà a se stessi resta inalterata e memorie sfocate dell'antico mood visceralmente catartico e alienante à-la-Drum's Not Dead tornano ad affacciarsi e rivendicare la storica importanza ("Octagon"). Malgrado il rilascio tensionale, nella title track la fame d'aria non passa e si dilata in un confuso, avvolgente incubo circolare, scandito da un fragile mantra, epicamente recitato dai rintocchi sui piatti. L'inquietudine della quiete - ché mai nessuna quiete è realmente tale - cala il sipario su quella che non è una fine, ma l'ennesima, enigmatica suggestione ("Annual Moon Words"). Una fragilità desolante permea l'intero album, e messi da parte i sabba e le ossessioni monocordi è forse, come mai prima, nuda, offrendo all'ascoltatore la possibilità di rifugiarsi negli spigoli di un'architettura mentale complessa e seducente.

Album.




Fonte ondarock.it

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